Il cielo in un tinello
Dopo questi tre giorni di vacanza non vedo l’ora di andare a lavorare in miniera per riposarmi
Day 1. Un rumore sordo zittisce persino quei chiassosi di bimbi in piscina e attira l’attenzione delle loro mamme ciarliere («Oooohhh!…»): è un mio dito del piede (il quarto a partire da sinistra – si dice “anulare del piede”?) che sbatte contro uno di quei pesantissimi e durissimi affari di pietra che tengono su gli ombrelloni, mentre, con fare disinvolto, incedevo in bikini con un figlio per mano e qualcosa di sicuramente superfluo da dire alla primogenita dietro di me, ragion per cui, voltandomi, non ho visto che quel masso incombeva sulla mia traiettoria. Rassicuro i natanti a bordo vasca («Tutto-a-posto-non-è-niente!»), che ancora non hanno rinserrato le mascelle, mi immergo nell’acqua per fortuna freschina sperando che ciò basti a placare la botta. Ovviamente no: dito verosimilmente rotto (è un po’ bitorzoluto anche in quest’istante) e inverosimilmente gonfio e bluastro per il resto della vacanza, la quale, va detto, al momento della sciagura era iniziata da 5 minuti. Consoliamoci: quest’estate non sono tornati di moda i colori fluo?
Day 2. Mi fa male la testa. Ma non in un modo normale. È come se il mostro di Alien stesse uscendo dalla mia testa, facendosi largo tra le ossa del mio cranio, che si sbriciolano al suo passaggio. È come se stessi partorendo, ma con la testa. È come tutti i mal di testa provati in tutta la vita mia e vostra insieme e moltiplicati per dieci. Arranco claudicante verso la piscina – sempre lei – dove se ne sta coi figli a mollo il marito (che mi guarda torvo perché la sintesi della sua partecipazione al mio dolore è espressa dal timore che la vacanza andrà così: io dolorante e lui a star dietro alle tre bestioline), e mi siedo vestita su una sdraio (l’emblema vivente della vacanza sfigata), fino a quando una nuova urgenza nasce in me: schizzo (zoppicando: che scena trash) in bagno e vomito anche il pandoro di Natale (perché, si sappia: io sono team pandoro). Successivamente i più attribuiranno questo secondo exploit a un’indigestione. Io ricordo solo che poi son stata bene e ho alzato gli occhi al cielo: «Altro?».
Day imprecisato. Il terzogenito – dopo aver rotto l’abat-jour in camera nostra e con i vetri di quest’ultima essersi affettato un piede; dopo aver rischiato l’annegamento perché in quei 5 nanosecondi che l’abbiamo lasciato senza braccioli da Mazinga Zeta lui ha pensato bene di cadere in acqua; dopo essersi perso per l’agriturismo ed essere stato ritrovato, dal nostro solerte e tedesco vicino di appartamento, al ristorante – una sera a cena nel ristorante di cui sopra, si cappotta giù per tre gradini e si fa un occhio nero tipo Rocky Balboa. «Che clown!» aveva sorriso la compagna del vicino tedesco 5 minuti prima alludendo al simpaticone. Io penso all’affido: qualcuno lo vuole da qui ai miei 65 anni? No?
Last day. La sera prima di partire, si conclude in bellezza: mangiata con parenti – mia mamma è di quelle parti, cioè toscana -, saluti finali, baci, abbracci. Ma nel tornare alla macchina (son viaggi anche quelli: da un portone a una macchina; dalla cucina al bagno; dalla casa all’asilo; da una parte all’altra di una strada…. in cui bisogna propinare attenzioni e raccomandazioni nonché adeguato equipaggiamento) i tre gaglioffi risentono della lunga giornata e caracollano, e siamo costretti, io e il marito, a portarceli uno in spalla, uno in braccio e una sul passeggino. E in tutto questo via vai, uno su, uno giù, etc., non mi rendo conto, se non un’ora dopo ormai arrivati all’agriturismo, che ho perso gli occhiali da vista, precedentemente appesi allo scollo davanti del vestito e caduti chissà se nei dintorni sconfinati del ristorante, nel parcheggio davanti casa di mia zia dove almeno dieci persone possono averli calpestati e altrettante bestie possono averci fatto sopra i loro bisogni o in chissà quale altro anfratto della maremma. Il giorno dopo (già pronti per partire, con la macchina che sta per esplodere di valigie e valigette) tentiamo invano di ritrovarli. Il gestore del ristorante, però, ha ritrovato e mi restituisce il bicchierino di plastica del terzogenito. Ah bé. Un po’ come quando alla fine dei quiz di Mike Bongiorno non vincevi un miliardo di lire, ma ti davano il gioco in scatola.
Ora, che in macchina guido coi miei occhiali da vista di scorta in attesa di prenderne di nuovi (c’è una lente talmente graffiata che sembra mi si sia appannata e da quell’occhio vedo opaco), mi rendo conto che i figli più che mai fan sì che di quelli che dovrebbero essere giorni in cui le cose da fare tutti i giorni “vacano”, etimologicamente parlando, ovvero mancano, e si avrebbe la possibilità di riempirli non con quello che “dobbiamo” ma che “vogliamo” fare, si ricorda soprattutto ciò che ci siamo ritrovati “costretti” a fare. In vacanza, si ha più tempo per star di fronte alla realtà, per guardarla in faccia: per questo è sempre e comunque, al di là dei millemila esempi catastrofici che io in primis potrei elencare, il periodo più impegnativo dell’anno!
PS: Avete mai visitato la Cattedrale di San Cerbone a Massa Marittima? Fatelo (assicurandovi prima, però, che “quelli intorno al metro d’altezza” non rotolino giù dalle ripide e caratteristiche scale, tipo tempio Maya, che occorre salire per raggiungerla).
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2 commenti
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Per una del “team pandoro”, ciò che ti è successo è ancora poco!!! Meriti di peggio!
Stupendo!!