Una società di sole madri? No grazie

Di Luca Del Pozzo
07 Maggio 2022
Bisogna stare attenti che la sacrosanta battaglia a tutela delle donne non venga inficiata dalla tesi cara al politicamente corretto secondo cui il maschio è da combattere
Mamma con figli al parco durante il lockdown per l'emergenza coronavirus

Mamma con figli al parco durante il lockdown per l'emergenza coronavirus

Correva l’anno 2003 quando nelle librerie arrivò Il padre. L’assente inaccettabile, di Claudio Risé. Un libro che ebbe l’effetto di un pugno nello stomaco. Ma soprattutto un libro che a neanche venti anni di distanza si è rivelato oltremodo profetico e, quindi, attualissimo. Risè seppe intercettare e anticipare un fenomeno – la scomparsa della figura paterna – che oggi è diventato un’emergenza sociale di cui purtroppo si parla sempre poco e sempre meno. Poche realtà sono state calpestate e vilipese come la figura paterna. Al punto che i padri, parafrasando Gaber, sono una razza in via di estinzione. Con l’aggravante che la cosa non solo non viene percepita come un problema, ma se possibile in certi ambienti viene addirittura auspicata.

Magari ancora a mezza bocca, o usando giri di parole e funambolismi lessicali per non scoprirsi troppo; ma è un fatto che oggi, anche in scia alle derive politicamente corrette di fenomeni quali il #metoo e di qualche forzatura ideologica della pur giusta e sacrosanta battaglia contro la violenza sulle donne, stia emergendo nell’alveo del grande fiume del femminismo una corrente la cui presa di distanza – di per sé positiva – da temi e iniziative care all’ideologia gender propugnata dal progressismo mainstream, è tuttavia viziata da una lettura fuorviante del gender stesso che a sua volta di riflette in una visione della famiglia e del rapporto uomo-donna che riproduce stereotipi e cliché con un pungente odore di tappo.

Secondo tale prospettiva – promossa tra le altre da Eugenia Roccella di recente menzionata da Giorgia Meloni nel suo intervento iniziale alla conferenza programmatica di Fratelli d’Italia – l’ideologia gender non punterebbe al superamento delle discriminazioni quanto piuttosto ad attaccare la donna in quanto madre. E questo in quanto la fluidità dei generi sarebbe solo apparente poiché il soggetto (presuntamente) indifferenziato è in realtà un soggetto maschile. È lui, e solo lui, il maschio, che può scegliere tra una gamma infinita di generi. Insomma il bersaglio grosso dell’ideologia gender è l’identità femminile, il tentativo di espropriare la donna da ciò che le è connaturale, cioè appunto la maternità. Ma così facendo – questo il passaggio successivo – il gender è una minaccia per la famiglia in quanto tale dal momento che – sempre secondo tale impostazione – è la donna, anzi meglio la madre l’asse portante della famiglia. E il padre? Che ruolo avrebbe il padre nella famiglia? Non è dato saperlo. È ininfluente la presenza dell’uomo-padre a fianco della donna-madre? O se non c’è tanto meglio così risolviamo “a monte” la questione dei femminicidi e più in generale della violenza sulle donne?

L’errore di fondo sta nella mancata comprensione dell’ideologia gender. La cui essenza si riduce a questo: la sostituzione del principio di realtà con quello di percezione (dice niente l’art. 1 del ddl Zan?). Il gender veicola la stravagante tesi secondo cui l’essere uomo o donna prescinde dal dato biologico essendo una costruzione culturale. Detto altrimenti: laddove il sesso è determinato dalla natura, il genere viene costruito socialmente dalla cultura. E in quanto tale può essere cambiato a piacimento. In questo modo l’identità sessuata viene sostituita dall’identità di genere, cioè dal “percepirsi” in un certo modo e con la possibilità di variare il proprio genere senza alcuna limitazione.

Emblematiche in tal senso queste parole di Adrienne Rich, sostenitrice della politics location (politica del situarsi): “Siamo le stesse nella nostra corporalità femminile, ma il corpo non è pura natura (sex), bensì specialmente cultura, cioè punto di intersezione tra il biologico, il sociale, il simbolico (gender)”. E il riferimento alla Rich – esponente di spicco del femminismo radicale statunitense – non è casuale. L’altro punto infatti che sembra sfuggire a coloro i quali sostengono una lettura “maschilista” del gender è che esso nasce in seno ai movimenti femministi, e come ulteriore tappa del processo di emancipazione della donna (oltretutto, essendo la gender theory, di fatto, un veicolo e una variante dell’omosessualismo, l’accusa di maschilismo suona alquanto stonata). Il fatto poi che la maternità venga affermata come un diritto anche da chi donna non è ma come tale si percepisce, e che ciò sia un vulnus devastante (in primis per i figli), è vero e va combattuto. Ma questo non sposta di una virgola che il gender, di per sé, nel momento in cui afferma la libertà di autodeterminarsi, non sia né maschilista né femminista. È semplicemente, come l’ha definito papa Francesco, un errore della mente umana.

Poi ognuno ha tutto il diritto di intendere il gender e la famiglia come meglio crede, ci mancherebbe. Ma giusto a scanso di equivoci è bene precisare un paio di concetti: a) ogni sana posizione conservatrice (per tacere della concezione della famiglia propria della dottrina sociale della Chiesa) contempla la famiglia come composta da un padre (maschio) e una madre (femmina); b) bisogna fare attenzione e, se del caso, opporsi fermamente, a che la sacrosanta battaglia a tutela delle donne non venga inficiata dalla tesi cara al politicamente corretto secondo cui il maschile, l’uomo maschio in sé è da combattere in quanto potenziale omicida. Fino al punto di immaginare una società di sole madri. Anche no, grazie.

Dev’essere chiaro che questo rappresenterebbe la fine della società. E siccome si tratta di un pensiero che circola, è necessario avere gli occhi ben aperti e respingere con forza ogni tentativo in tal senso. Non, ovviamente, muovendo da una posizione di segno opposto, il che vorrebbe dire commettere lo stesso errore.

Il punto è un altro: occorre superare una volta per tutte questo approccio antagonista favorendo il recupero di una visione organica della famiglia dove non c’è contrapposizione ma collaborazione reciproca nel rispetto della diversità (che c’è) dei ruoli. Non solo: se il femminismo, quello meno ideologizzato e più lungimirante, avesse davvero a cuore il bene della famiglia e delle donne, meglio farebbe a lottare per il recupero della figura paterna anziché accodarsi alla già nutrita schiera degli utili idioti a sostegno di chi ha inteso e intende distruggere la famiglia più di quanto non sia già successo dal ’68 in poi (e in tale contesto rientra anche l’improrogabilità di riformare in profondità la disciplina dell’affido condiviso, onde provare almeno ad arginare la piaga sociale dei tanti, troppi padri e mariti ridotti sul lastrico e/o costretti a mendicare un piatto caldo e un tetto sotto cui dormire a seguito di una “semplice” – con ciò intendendo senza alcuna specifica aggravante a loro carico – separazione o di un divorzio).

E per essere chiari fino in fondo: il fatto che la maggior parte dei casi di violenza contro le donne avvenga tra le mura domestiche e all’interno di nuclei affettivi stabili – ripeto, un fenomeno odioso che va giustamente stigmatizzato e contrastato senza se e senza ma – non è un buon motivo per buttare il bambino (la figura paterna e in generale quella del maschio) con l’acqua sporca (singoli padri e/o mariti violenti).

Una società senza padri (sottinteso: maschi) o dove il padre non conta più nulla essendo stato declassato al rango di “amico” (quando gli va bene), non ha alcun futuro. Per questo è un imperativo morale che la società, in tutte le sue articolazioni, restituisca alla figura paterna autorevolezza e status, smettendo di considerare il padre un ente inutile da rottamare o un suppellettile affettivo. Ma soprattutto serve un nuovo patto sociale in grado di ridare alla famiglia la centralità che merita, valorizzando le prerogative di entrambe le figure, paterna e materna, in un quadro culturale che sappia riconoscere pari importanza all’uno e all’altro genitore. Ne va del futuro dei nostri figli, il che vuol dire del futuro dell’Italia. Non è poco.

Luca Del Pozzo

Foto Ansa

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