Pubblichiamo l’articolo uscito sul numero 50 di Tempi.
«Vigilando redimere» era il motto delle guardie penitenziarie che l’arcivescovo di Cosenza monsignor Salvatore Nunnari ricorda nella sua esperienza di volontario nella biblioteca del carcere di Reggio Calabria all’età di diciannove anni. «Oggi non esiste più questo motto. Esiste solo la vigilanza che non è redenzione e a volte è anche sopruso».
Papa Benedetto XVI il prossimo 18 dicembre si recherà per una visita pastorale al carcere di Rebibbia. Il Santo Padre prosegue la tradizione già percorsa dal suo predecessore Giovanni Paolo II che si recò più volte nelle prigioni romane. L’attenzione che il pontificato del beato Karol Wojtyla ebbe sulla situazione delle carceri fu sensibile e profonda. Si rilevano in modo particolare due momenti: in occasione del Giubileo e durante la visita al Parlamento italiano nel 2002, dove il Papa chiese apertis verbis «un segno di clemenza». Monsignor Giorgio Caniato, sacerdote ambrosiano che per oltre un ventennio è stato ispettore generale dei cappellani dell’Amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile, con alle spalle cinquantasei anni d’esperienza passati tra il carcere di San Vittore e il Beccaria a Milano, ricorda: «Giovanni Paolo II, in occasione dell’anno giubilare, chiese un segno di clemenza per tutti i detenuti. Con questo il Papa non voleva applicare provvedimenti di clemenza che rimanessero solo formali, si trattava invece di varare iniziative per costruire una valida premessa per un autentico rinnovamento sia della mentalità sia delle istituzioni».
Il cappellano del carcere di Rebibbia, don Sandro Spriano, spiega a Tempi l’importanza della visita di Benedetto XVI, evidenziandone la natura pastorale. «Non è una visita di Stato o una visita ufficiale, ma un segno grosso d’attenzione in un momento in cui nessuno pensa seriamente ai detenuti». La testimonianza di don Sandro è molto dura: «C’è un abbandono totale: non ci sono nemmeno le risorse per evitare di far piovere negli istituti». Anche monsignor Caniato definisce la condizione nei penitenziari italiani «antiumana». L’arcivescovo di Cosenza conferma: «Le forme dei penitenziari destano raccapriccio e rabbia. Non è così che si fa giustizia».
In questa brutta situazione, sottolinea monsignor Caniato, «la prima cosa da rilevare è che le carceri sono gestite dallo Stato; i responsabili sono il presidente della Repubblica e il Parlamento i quali devono decidere cosa fare. Ci sono tante cose da sistemare e c’è una commissione parlamentare che dovrebbe pensare a questo problema». Prosegue l’ex cappellano di San Vittore: «Bisogna ripensare il modo di gestire la giustizia. È sbagliato avere un concetto di Stato assoluto, cioè l’idea di uno Stato che punisce, assolve e condanna. Il punto di partenza è che lo Stato siamo noi, attraverso l’organizzazione nei vari poteri, con il fine di realizzare il bene della comunità». Da riformare dunque per monsignor Caniato è il concetto di giustizia: «La giustizia è tale quando diventa ricostruzione, riparazione. Un conto è dare una sberla se hai rotto un vetro, un’altro è dire: “Hai rotto un vetro e ora lo ricostruisci”».
Entra nel dettaglio il cappellano di Rebibbia: «La legislazione attuale incarcera tutti quei soggetti che non riusciamo a integrare nelle nostre regole sociali: i tossicodipendenti, gli stranieri del Terzo e Quarto Mondo, gli italiani che vivono in condizioni di povertà. Il carcere è diventato il luogo dove riporre e allontanare per un po’ di tempo le persone che non riusciamo a integrare. Le statistiche dicono che è diminuita la criminalità, ma aumentano i detenuti; questo ci dovrebbe far pensare. Per la maggioranza dei carcerati la prigione è una sorta di Lazzaretto: un luogo ai margini dalla società. A conferma di questo è significativo che il 50 per cento dei carcerati è in attesa di una condanna definitiva. Questo significa che non siamo in grado di provvedere a situazioni diverse come prevede la legge, perché i non condannati non dovrebbero stare in carcere, ma casomai in strutture adatte e protette».
«Questa non è rieducazione»
L’arcivescovo Salvatore Nunnari si sofferma sul problema dei tossicodipendenti nelle strutture penitenziarie, e ne parla chiamandoli «figlioli che hanno sbagliato entrando nel tunnel oscuro della droga. Non credo che il carcere sia il luogo della loro rieducazione». Detto questo, il prelato calabrese afferma: «È necessario riconsiderare il discorso sull’amnistia». Il giudizio a tal proposito è unanime tra gli intervistati di Tempi, con la coscienza che l’amnistia non è la soluzione al problema della giustizia, ma la strada necessaria per poter incominciare a parlare di riforme. Don Sandro Spriano ha partecipato alla manifestazione di piazza Navona con Marco Pannella per sostenere la battaglia sull’amnistia. «Sono fermamente convinto che è un provvedimento necessario e nello stesso tempo urgente prima di qualsiasi altro impegno atto alla riforma dei codici. L’indulto del 2006 fu necessario per sfoltire un numero assolutamente improponibile di detenuti che vivevano in spazi degni di un pollaio. Oggi abbiamo superato ampiamente quei numeri, quindi se si volesse ragionare su misure che non siano emergenziali occorrerebbe muoversi attraverso un unico provvedimento: l’amnistia. Che riporterebbe la situazione degli istituti previdenziali alla normalità: condizione minima per poter successivamente partire con gli adempimenti necessari a riformare un’amministrazione della giustizia che sta veramente ammazzando i più deboli e i più poveri». L’amnistia non è quindi la soluzione del problema carceri, ma un passaggio determinante per risolvere la situazione.
Monsignor Nunnari nell’affrontare il tema dell’amnistia afferma che «noi italiani siamo tutti bravi a giudicare. Dobbiamo avere maggior spirito cristiano nel pretendere la conversione del cuore». Contemporaneamente, però, per il prelato calabrese occorre un serio ragionamento sui reati che non dovrebbero godere dell’amnistia: «A tutti il perdono, non a tutti il condono».
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