Da Udine all’Ucraina, la compagnia dei 70 quintali

Di Caterina Giojelli
18 Aprile 2022
Un formicaio di sconosciuti alla porta, la casa sommersa dai farmaci, un autista che chiama tutti "pazzi". I giorni di fermento e "approssimazione logistica" che hanno guidato Marco Peronio e amici in aiuto all'ospedale di Užhorod in Transcarpazia
Ucraina

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Il campanello suonava in continuazione e fuori da casa Peronio non c’erano altro che persone, sacchetti, scatolette e nessuno riusciva a capire niente: «Allora quando arriverete?», «Come ha detto che si chiama l’ospedale?», «Ci dica dei bambini ricoverati», «notizie? Sono stati bombardati?». A un certo punto Marco Peronio, direttore del consorzio di coop sociali Il Mosaico, si rassegnò a lasciare la porta aperta e la bocca chiusa: il fatto era che non sapeva rispondere a quasi nessuna delle domande che tutta quella brava gente gli rivolgeva, né come avrebbe fatto a portare tutta quella roba che gli stavano lasciando a casa fino in Ucraina.

Benedetti sconosciuti e “approssimazione logistica”

Erano passate solo 24 ore da che aveva mandato una mail agli amici della comunità di Cl di Udine, “chi vuole e può, nei prossimi tre giorni dopo le 17, porti le medicine indicate a casa nostra, provvederemo a inviarle in Ucraina”. Amici che era certo qualche aspirina l’avrebbero recuperata. Ma allora chi erano tutti quegli sconosciuti in fila davanti a casa sua con le braccia colme di farmaci, lacci emostatici, analgesici e pannolini? «A una signora l’ho anche chiesto, ringraziandola: scusi, ma lei da chi ha saputo della raccolta a casa mia? E questa mi fa il nome un’altra sconosciuta. Mai visto un passaparola funzionare così. Il giorno dopo, insieme alla fila di persone e medicine, mi trovo anche una giornalista di un giornale locale, mi fa un sacco di domande, scrive nel pezzo sull’iniziativa l’indirizzo di casa mia. A quel punto neanche il garage svuotato da auto e bici bastava più».

Marco Peronio racconta allegro a Tempi i giorni della “totale approssimazione logistica” che hanno preceduto il suo altrettanto approssimativo ingresso in Ucraina. «Capirà, senza passaporti, documenti, con cinque furgoni e 70 quintali di farmaci: c’era un autista reclutato da un parroco di Trieste mai visto prima, che dalla partenza fino al confine ungherese non ha fatto altro che chiederci se eravamo impazziti e come pensavamo di arrivare a destinazione».

L’appello dall’ospedale di Užhorod

In effetti la destinazione è l’unica cosa certa fin dall’inizio dell’avventura di Peronio, famiglia e amici: Užhorod, Transcarpazia. Non c’è la guerra ma c’è un ospedale che sta accogliendo moltissimi feriti e ha esaurito anche solo le bende per fasciarli. «È la sera di domenica 27 febbraio quando un caro amico, Michele, primario di pronto soccorso a Venezia mi mostra l’appello disperato di una amica e collega ucraina che chiede aiuto urgente per questo ospedale. Proprio in quei giorni stavo cercando di capire come poter dare una mano: la nostra associazione Avsi Friuli-Venezia Giulia, con cui sosteniamo da anni i progetti di Avsi, aveva vinto un bando regionale per realizzare un progetto di cooperazione con la Fondazione Emmaus a Kharkiv. Un progetto che proprio a causa dello scoppio della guerra era diventato tragicamente irrealizzabile: e ora, ci chiedevamo, come avremmo potuto aiutare l’Ucraina proprio nel momento in cui aveva più bisogno? Era appena cominciata l’invasione e la risposta è arrivata in quell’appello rivolto a Michele».

Naturalmente scrivendo quelle righe la dottoressa avrà confidato nell’aiuto ben strutturato dell’ospedale di Venezia: chi immaginava che a dare una svolta alla storia dell’ospedale di Užhorod e a riempire i magazzini di una città che sarebbe diventata in fretta un centro logistico di smistamento merci dirette alle zone di guerra sarebbe stata una allegra brigata radunata spontaneamente a Udine, davanti a casa Peronio? «Io no di certo. Insomma cominciano ad arrivare tutte queste persone, mia moglie, farmacista, lavora no stop per tre giorni, le mie figlie accantonano tesi e lavoretti per aiutare a catalogare tutti quei farmaci. Una di loro arriva da Padova con due amiche, studentesse come lei di medicina e un sacco da studiare, ma contente di aiutare come possono. I vicini trafficano con i pacchi tra il garage e le scale, gli amici ci aiutano a cercare autotrasportatori. E nonostante la palese confusione che così poco avrebbe reso onore alla serietà della raccolta, le persone non smettono di comprare, portare farmaci, fermarsi a chiacchierare. Una signora mi racconta affranta che la figlioletta vedendo i telegiornali le ha chiesto come si fa a diventare atei, “vedo queste immagini e capisco che Dio non c’è”. La invito subito a portarla qui, in questo allegro formicaio di persone davanti a casa per vedere quanto bene invece può scaturire anche nella sofferenza, avere certezza che il male non è tutto».

«70 quintali di farmaci? Qui vi servono cinque furgoni»

Il bene è anche una amica d’infanzia che chiama come se non fossero passati trent’anni dall’ultima volta che ha visto Peronio, «ho letto sul giornale, bravi, ci sono anche io», e una preside che insiste: «Giovedì, finite le vacanze di Carnevale, raccogliamo farmaci per voi a scuola», «No! Giovedì si parte», «Aspettaci, mando una mail ai ragazzi, ti facciamo trovare qualcosa tra le 7.30 e le 8 meno dieci del mattino». Peronio va a scuola con la sua Multipla, dieci minuti dopo sta chiamando una ditta per noleggiare l’ennesimo furgone, «non ci stava nulla in macchina». Anche l’autotrasportatore amico diretto in Ungheria a cui avevano chiesto di lasciare la merce raccolta al confine con l’Ucraina si era messo a ridere: «Settanta quintali di farmaci?». «E pannolini, e latte in polvere… i pannolini sono come la pasta alla giornata della Colletta alimentare, nessuno la chiede ma tutti si presentano con un pacco». «Qui vi servono cinque furgoni e sette autisti».

Soprattutto, una volta trovati i furgoni e gli autisti, sempre grazie al passaparola e alla generosità degli amici, e finalmente partiti alla volta dell’Ungheria, Peronio e compagni vengono informati che nessuno dall’ospedale può venire al confine a ritirare la merce. O si entra o nulla. Peccato che in quattro, Peronio compreso, abbiano il passaporto scaduto. «Mentre l’autista reclutato dal parroco di Trieste ci dà, a ben ragione, dei cialtroni senza senno, iniziamo a cercare una soluzione. E questa volta la Provvidenza ha il nome di un giovane infermiere ucraino che lavora al pronto soccorso di Verona, un ragazzo sveglio che fin dall’inizio della guerra si adopera così tanto da aver ricevuto una delega per portare aiuti dal nostro paese. Ma questa è un’altra, bellissima storia. Insomma grazie ad amici e a questo giovane, che oltre a tir e ambulanze riuscirà ad inviare nel suo paese martoriato anche noi ingenuotti del Friuli, facciamo tappa dal console ucraino in Ungheria, recuperiamo degli strani lasciapassare e presentiamo il tutto, insieme a una quantità di scartoffie incredibile di cui ci aveva equipaggiati una delle mie figlie prima della partenza, alla frontiera. E finalmente entriamo in Ucraina. Augurandoci anche di uscirne».

L’arrivo in Ucraina, «torniamo presto»

Sono circa le tre e mezza di notte quando la carovana italiana arriva a Užhorod, Transcarpazia. La prima cosa che fa la dottoressa da cui era partito tutto è metterli a tavola, una tavola imbandita con ogni ben di Dio, come si addice agli ospiti d’onore. Il giorno dopo, scaricata la merce, i nuovi amici ucraini insistono nel portare gli italiani a visitare la loro bella cattedrale, con quell’affresco della resurrezione in cui è raffigurata una donna prossima al parto, testimonianza della rinascita dell’umanità. È un momento di grande commozione «soprattutto per quel nostalgico asburgico dell’autista di Trieste che appena si trova in piazza la statua di Maria Teresa d’Austria corre ad abbracciare gli ucraini, gridando “ora sì che siamo fratelli”». Nemmeno l’interruzione del corridoio umanitario inforcato per il ritorno, il pensiero che le scartoffie non li aiutino a uscire dal paese, la preoccupazione di non avere più le medicine ma tre profughe, affidate loro da portare in Italia, fiaccano l’umore della compagnia al ritorno.

«Quando ci siamo divisi, dopo un viaggio non meno problematico di quello dell’andata, il nostro nuovo amico diretto a Trieste ha cominciato subito a scrivere a noialtri cialtroni, “torniamo presto a portare cose. Vediamoci. Contate su di me. Io ci sono”. Eravamo grati per ogni scatolone scaricato, ogni persona incontrata, ritrovata e non più “sconosciuta” dal 27 febbraio in poi». Arrivati a Udine Peronio ha scoperto che il Comune ha avviato una raccolta a suo nome e messo a disposizione un magazzino, che la moglie si è organizzata col banco farmaceutico, che nessuno ha smesso di comprare farmaci e nemmeno di usare il suo numero per avere notizie, mettersi a disposizione e inviare nuova merce. I passaporti sono a posto, i colleghi del consorzio pronti a lasciargli ancora qualche giorno di ferie, anche il più musone dei vicini saluta gli altri dopo i “giorni dell’improvvisazione”. Dopo Pasqua, con l’arrivo di maggio e l’aiuto di tanti, vecchi e nuovi amici, si tornerà in Ucraina.

Foto Ansa

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