Tunisia, la “rivoluzione” si radicalizza e l’economia precipita

Di Rodolfo Casadei
03 Marzo 2011
Dal 15 gennaio si sono già dimessi 14 ministri e un primo ministro, Ghannouchi, attualmente sostituito dall'84enne Beji Caid Essebsi. Crolla l'economia: il Pil giornaliero che manca è pari a 103 milioni di euro. 100 mila lavoratori tunisini tornano in patria disoccupati dalla Libia e il settore turistico (8% del Pil) che inizia a lavorare a marzo è in forse per le proteste

Ottima idea quella del governo italiano di fornire assistenza in territorio tunisino all’ondata di profughi in fuga dalla Libia afflitta dalla guerra civile: un’iniziativa umanitaria ricca di interessanti prospettive politiche, che obbligherà osservatori e governanti italiani ed europei a fare il punto della situazione nel paese dal quale è partita l’onda d’urto che ha investito la quasi totalità dei paesi arabi. Nel diluvio di notizie che arrivano da Libia ed Egitto, Yemen, Iran e Bahrein, la Tunisia è finita in secondo piano; eppure i motivi di preoccupazione non mancano.

Dal giorno della formazione del governo di unità nazionale che, all’indomani della fuga in Arabia Saudita di Ben Ali, ha preso il posto di quello che era stato da lui nominato, è passato appena un mese e mezzo. Nel breve lasso di tempo che va dal 15 gennaio al 1° marzo, ben 14 ministri e un primo ministro hanno presentato le dimissioni. Nell’ultima infornata di rinunce hanno tolto il disturbo quattro ministri e segretari di Stato, compreso Elyes Jouini, ministro delle riforme economiche, considerato il più brillante economista di cui può disporre la Tunisia.

Ma la data più importante è quella del 27-28 febbraio, allorchè hanno presentato le dimissioni il premier Mohammed Ghannouchi e quelli che erano gli ultimi due ministri che avessero servito almeno una volta in passato in un esecutivo nominato da Ben Ali. Al posto dell’esperto Ghannouchi (primo ministro per dodici anni) è subentrato un giovanotto di 84 anni, Beji Caid Essebsi, già compagno d’armi di Bourghiba, il padre della patria tunisino. Suo compito è modellare un governo strettamente tecnocratico che porti il paese ad elezioni, nel luglio prossimo, che non dovranno semplicemente eleggere un presidente e un parlamento nuovi, ma gettare le basi dell’assemblea costituente che riscriverà la costituzione tunisina.

In poche parole, la “rivoluzione” tunisina si sta radicalizzando: anche se sulle piazze si alternano le manifestazioni violente degli oltranzisti e quelle pacifiche di chi chiede il ritorno alla tranquillità, la politica è sempre più orientata a una profonda ristrutturazione di cui ancora non si intravedono gli esiti. Il presidente ad interim, Fouad Mebazaa, sembra orientato a cedere alle richieste dell’opposizione radicale, che chiede la creazione di un Alto Comitato per la salvaguardia della rivoluzione, delle riforme politiche e della transizione democratica, che diventerebbe un organo di tutela sul governo.

In predicato di presiederlo è Sihem Bensedrine, un avvocato di 85 anni che non fa più politica dal 1989 ed è una figura rispettata, ma che non potrebbe impedire ai gruppuscoli di estrema sinistra e ai dirigenti del sindacato unico Ugt di monopolizzare l’organismo.

Nel frattempo la situazione economica precipita a vite. Secondo l’ex ministro degli Esteri Kamel Morjane, la Tunisia registra un mancato Pil giornaliero pari a 103 milioni di euro dall’inizio della crisi. A ciò si aggiunge il caotico rientro in patria dei 100 mila lavoratori tunisini che dalla Libia inviavano le loro rimesse e che ora si ritrovano disoccupati, l’arresto del flusso di visitatori dalla Libia che andavano a spendere in Tunisia per beni e servizi (5 milioni di presenze l’anno scorso) e le prospettive incerte della stagione turistica, che in Tunisia formalmente ricomincia in marzo.

Da solo il settore turistico conta per l’8 per cento del Pil e dà lavoro a 400 mila persone. In mezzo a queste preoccupazioni, è passata quasi inavvertita la storica legalizzazione, martedì scorso 1° marzo, di Ennhada, il partito islamista.

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