Era la seconda metà degli anni 60 e l’atmosfera musicale rock che avvolgeva una sponda e l’altra dell’Oceano Atlantico era impregnata dalle note di due gruppi che avevano dato il via a un duello che avrebbe portato al dramma esistenziale di uno dei protagonisti. In Inghilterra leader indiscussi del rock – pop globale erano i Beatles con le loro songs spesso levigate e perfettine, “piacione” quanto bastava per imporsi nell’immaginario collettivo, tra schiere di fan alla ricerca di simboli e icone. In terra americana, nella mitica California, lato Pacifico, la sfida al quartetto di Liverpool era appannaggio dei Beach Boys, gruppo della famiglia Wilson, pionieri grazie alla creatività di Brian, di quel pop polifonico, simbolo della spensieratezza dei giovani che passavano le giornate tra le onde giganti solcate dai surf.
Si conoscevano e si stimavano questi due gruppi duellanti: quando i Beatles pubblicarono Rubber Soul, i Beach Boys risposero realizzando l’album, che la critica ha sempre definito “il più bello nella storia del rock”: Pet Sound, dove la ricerca degli arrangiamenti vocali e strumentali faceva un salto di qualità definitivo, tanto che gli stessi “scarafaggi” furono impressionati dal risultato finale, esprimendosi in lodi sperticate per brani come God Only Knows, Wouldn’t it be nice e dal recupero della tradizionale Sloop John B.: una schiera di brani alla produzione dei quali Brian Wilson lavorò con l’intenzione di presentare al mondo “la canzone perfetta”.
Un sentimento che piano piano scavò la sua psiche, plagiandolo lentamente sotto l’influsso di LSD e droghe assortite, che proprio in quegli anni erano considerate sostanze che permettevano di “viaggiare” per mondi paralleli e psichedelici per poi tramutarli in note e suoni. Ma l’effetto sicuro di questi additivi chimici era il bruciarsi il cervello e l’allontanarsi progressivamente dalla realtà quotidiana, fino al deteriorarsi della normale attività psicofisica. E’ proprio all’inizio di questo piano inclinato che Brian Wilson partorisce l’idea di comporre un album che dimostri la sua genialità e unicità rispetto ai lodatissimi Beatles. Quindi procede nell’intento: licenzia (momentaneamente) il resto del gruppo, si chiude nella sua villa in riva all’Oceano, pretende che nel grande salone in cui campeggia il pianoforte vengano scaricati quintali di sabbia in modo da comporre con i piedi immersi come in spiaggia, e con furia inusitata parte alla ricerca della “canzone perfetta”. Settimane di registrazione, sempre più sconvolto, ed ecco che Smile, così si chiama l’album, prende forma. A una a una le canzoni brillano nella loro forma completa: Good Vibration, Heroes and Villains, Cabin Essence le più significative, e poi tracce quasi futuristiche e assolutamente inedite per la cultura rock di quel tempo. Ecco tutto è pronto: l’album può andare in stampa, la sinfonia giovanile dedicata a Dio può essere pubblicata dopo questa febbrile gestazione: “Ora – avrà pensato Wilson – potrò riposare e godere della incredulità non solo del pubblico e della critica, ma anche di quei “professorini” dei Beatles.”
Ma il destino stava giocando un brutto scherzo a Brian: mancavano veramente poche ore all’uscita nei negozi di Smile quando, per una pura coincidenza, il nostro Beach Boy si trova tra le mani, in anteprima, una copia del nuovo lavoro dei Beatles Sgt. Pepper & Lonely Heart Club Band. L’ascolto risulta sconvolgente, tutto quello in cui Brian era convinto di essere capostipite era stato pensato e realizzato su vinile dal quartetto inglese. Lucy in the Sky with Diamonds, With a Little Help from my Friends, A Day in the Life, questi i titoli più sconvolgenti. Per Brian è troppo: settimane di prove, di ricerche, di tentativi, spazzate via dalla genialità di Lennon e McCartney. La sfida l’hanno vinta loro. Nella mente ormai annebbiata dalle droghe, Wilson si sente come Icaro che una volta avvicinatosi al sole sta precipitando rovinosamente a terra, con le ali di cera completamente sciolte. Non vuole essere ulteriormente umiliato, nessuno dovrà mai ridere di lui, non vuole arrivare secondo meglio ritirarsi. E così una notte distrugge i nastri delle registrazioni e (leggenda metropolitana?) appicca il fuoco nel magazzino dove sono conservate le copie dei vinili pronti a essere distribuiti ai negozi. E, infine, si richiude in se stesso, passando decenni in analisi, alla ricerca della propria identità e del suo equilibrio mentale.
Di quell’album non si saprà più nulla, se non la pubblicazione di un paio di brani sfuggiti alla furia iconoclasta del loro autore. Smile per gli addetti ai lavori e per i fan dei Beach Boys diventerà il Sacro Graal, l’Atlantide del mondo del rock. Alla fine degli anni 90, dopo aver raggiunto una fragile serenità psichica, Brian Wilson ritorna a suonare, a comporre canzoni, a incidere dischi, ma c’è ancora un mistero da svelare e così nel 2004 ritorna in sala d’incisione con il gruppo che lo segue da qualche anno e decide una buona volta di richiudere la ferita che gli procurò l’uscita di senno ben quarant’anni prima. Smile diventa realtà e si palesa nella sua grandezza anticipatrice, tra richiami alla tradizione americana Gershwin, il jazz e il rock polifonico, una miscela esplosiva in quegli anni 60, un invito a un ascolto “adulto” che anche i Beatles rincorsero.
In questi giorni di novembre Wilson pubblica le session originali di quel capolavoro (come le abbia recuperate resta un mistero). Una storia bella e drammatica del rock si compie, quindi, in maniera definitiva. Vale la pena ascoltare Smile anche nella versione non originale ma molto fedele del 2004, testimonianza della ricerca magmatica e appassionata degli artisti che hanno fatto la storia del rock, e domandarsi perché questa passione oggi sia scomparsa.