Topi, sciacalli, arabi e altri “quasi santi” di Kafka
Pubblichiamo di seguito, per gentile concessione dell’editore De Piante, una parte della prefazione del germanista Vito Punzi a Sciacalli e arabi, raccolta di quattro racconti di Franz Kafka (162 pagine, 22 euro) in uscita il 18 giugno in occasione del centenario della morte dello scrittore boemo.
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Per quanto ci si sforzi di trovare un’univocità di senso, la scrittura di Franz Kafka, sia essa quella dei romanzi frammentati e incompiuti, dei racconti editi o inediti, degli aforismi, degli appunti di diario, è sempre sviante: afferma per poi negare, divagando. E lo stesso accade con le lettere, da intendersi come parte della sua opera. Tanto che proprio in una di quelle, datata 5 luglio 1922, scrive: «L’oblio di sé è il primo presupposto dell’attività di scrittura». L’impossibilità di individuare nei suoi testi un “senso unico” ha nella dimenticanza di sé il suo fondamento.
Sebbene presto estromesso dal lavoro di trascrizione ed edizione degli inediti, Schoeps non rinunciò alla lettura di Kafka e al tentativo d’interpretazione dei suoi componimenti. Fu tra i primi a riconoscere la sua «abilità stilistica nel far trasparire un altro mondo dalle sue descrizioni», un mondo «astratto e onirico, eppure dotato di precisione logica». Secondo Schoeps le storie prodotte da Kafka si svolgono in una «quarta dimensione, in cui nulla è fisico, ma da cui emanano effetti dinamici oltremodo reali». Comprese dunque prima e con maggior chiarezza di altri il valore della lingua di Kafka: «Pensava figurativamente e figurava di conseguenza».
I protagonisti e gli oggetti di ricerca dei racconti scelti a mo’ di emblemi per questo volume – talpa, sciacalli, cani, topi – sono solo alcune delle figure prodotte dal pensiero kafkiano, che Schoeps non esita a definire «mitico», nel senso di produttore di miti. Affrontandoli, il lettore che sia avvezzo alla scrittura kafkiana troverà inattese vie d’accesso ad altre composizioni, e approcci a tematiche evidentemente assillanti il genio praghese, come pure rappresentazioni di figure già viste. Non si stupisca, il lettore, perché, come subito segnalato dal primo assemblatore e trascrittore degli inediti, il detto Schoeps, l’autografo di un singolo racconto poteva risultare iniziato in un quaderno, per poi proseguire altrove, senza esplicito richiamo. Vale a dire: quello della scrittura è stato per Kafka un unico mondo di figure e storie interconnesse, talvolta interscambiabili tra loro.
Tutta l’opera di Kafka è lucida e continua riflessione sulla vocazione, sul drammatico incrociarsi di libertà e destino. Più che documenti utili per la determinazione di presunte patologie, i suoi testi si offrono come nitide parabole i cui protagonisti sono alla ricerca di un proprio posto in una quotidianità necessariamente dominata dal banale e dal limite (per questo gli uomini hanno bisogno della Legge). Kafka interroga senza sosta le ragioni e le forme della creatività umana intesa come destino di partecipazione a qualcosa di dato, di “creato”. E non è mai in gioco un’idea aristocratica dell’arte. Può bastare uno «squittire», come quello di Josefine, che è dunque lontano dall’essere un «bel canto». In esso, scrive il praghese, c’è «qualcosa della perduta e mai ritrovabile felicità», qualcosa che «libera anche noi», anche se per breve tempo, «dalle catene» della vita quotidiana. È questa strutturale religiosità kafkiana a rendere le sue figure molto prossime a quelle dei santi. Schoeps non fece in tempo a conoscerlo, ma dalle testimonianze ascoltate arrivò a paragonare lo stesso Kafka «ai fondatori di religioni e ai santi medievali». In fondo, l’opera del praghese è grande proprio perché ha accettato di misurare sé e il proprio talento con la promessa più grande incardinata nel cuore dell’uomo: la felicità.
La domanda di felicità è il vero nucleo propulsivo dell’opera kafkiana e insieme il metro per comprenderne l’origine. Domanda a tal punto decisiva da affidare alla scrittura, nelle sue varie forme, il proprio, più serio tentativo di risposta. In una lettera dell’11 aprile 1909 all’amico Brod, dopo essere rimasto colpito dalla lettura di un suo componimento, Kafka sintetizza quella che ritiene essere l’unica soluzione possibile all’interno di quell’orizzonte che dalla sua finestra appare sempre «troppo vasto» per essere sopportato: «Se si abbraccia saldamente la poesia, ci si convince di poter uscire dall’infelicità senza fatica propria, con la gioia dell’abbraccio, in modo più reale che nella realtà».
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