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Home Sport

Tifosi, non educande

Tra calciatori indagati per discriminazione territoriale (succede a Taranto) e multe a chi canta contro gli avversari, la rieducazione punitiva del tifo raggiunge livelli inimmaginabili. Lasciate un po' di brutalità alle curve

Piero Vietti
06/11/2021 - 6:20
Sport
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Ultras del Paok durante la sfida di Conference League contro il Copenaghen (foto Ansa)

Chissà fino a quando potremo continuare ad andare allo stadio e fischiare squadra e tifosi avversari prima che anche il nostro tifo venga punito perché offende qualcuno.

Se canti mi offendi

L’epoca delle vittimismo non risparmia nessuno, tutti si sentono offesi da parole, atteggiamenti, pensieri, opere e omissioni degli altri, e c’è sempre un tribunale (solitamente social) pronto a indagare, condannare e punire chi non si comporta bene. Gli ultras, si sa, e per estensione quasi tutti i tifosi, sono brutti, sporchi, violenti e cattivi. Non (ancora) piegati alle nuove regole del vivere civile si ostinano appunto a fischiare gli avversari, a intonare coloriti canti sul fatto che tizio è un pezzo di merda o un figlio di puttana, o che il giocatore dell’altra squadra a terra deve morire.

Da qualche tempo si sono inventati il reato di discriminazione territoriale – valido soprattutto da nord a sud, quasi mai al contrario, e vabbè – e iniziato a multare e chiudere curve da cui partivano cori contro Napoli e i napoletani (con la paradossale conseguenza che il settore ospiti del San Paolo è spesso interdetto alle tifoserie avversarie). L’intento, come tutte le ultime disposizioni sugli stadi, è punitivo-educativo: ti multo così faccio vedere al mondo che gli haters non possono più andare a vedere le partite, lo stadio è un luogo di gente per bene che applaude i vincitori chiunque essi siano.

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Raddrizzare il legno storto dell’umanità ultras

Al grido di «facciamo tornare le famiglie allo stadio», come se fossero centri commerciali o parchi divertimento, si è arrivati a riempire le curve di bambini per vendere il calcio come esperienza di purezza, con il memorabile episodio dei piccoli juventini che urlavano «aaaaaaah merda!» a ogni rinvio del portiere avversario. Ci sono poi società che si sono illuse di insegnare cori politicamente corretti ai propri tifosi per educarli al rispetto e all’antirazzismo. Vaste programme, quello di raddrizzare il legno storto dell’umanità curvaiola, fortunatamente al momento non riuscito. L’obiettivo però resta, e ogni mezzo è lecito per perseguirlo.

E se da qualche tempo è ormai prassi raccontare vita morte e miracoli su tutti i media e tutti i social di chi viene sorpreso a fare buu razzisti a qualche giocatore di colore, nelle ultime settimane sono successi almeno due fatti che dovrebbero preoccupare chi è convinto, come noi, che lo stadio non sia la redazione di Repubblica o del Guardian, e che sfottò e campanilismo, anche con toni accesi, facciano parte della nostra cultura e del teatro che c’è attorno allo sport più popolare (nel senso di popolo, non di follower).

I tifosi tarantini devono gridare «Forza Bari»?

Non bastava la giusta stigmatizzazione dei cori razzisti, o l’assurdo provvedimento del ministro dell’Interno francese, che nei giorni di Marsiglia-Lazio ha disposto che qualunque tifoso biancoceleste venisse fermato al confine e rispedito in Italia. Qualche giorno fa è successo che il Giudice Sportivo di Lega Pro ha sollecitato la Procura Federale a indagare sul comportamento tenuto dai tifosi e dai calciatori del Taranto, rei di aver festeggiato insieme ai tifosi della curva nord, al termine della gara di sabato contro il Potenza, intonando il celebre “chi non salta è un barese”.

Il Taranto è stato inoltre multato perché i suoi sostenitori hanno cantato lo stesso coro nel corso della gara. Poche settimane prima, invece, l’Avellino è stato multato per cori dei proprio tifosi contro la squadra e i giocatori avversari, la Paganese. Nella nota ufficiale della Lega si legge di «cori oltraggiosi nei confronti di un calciatore avversario» sanzionati con una multa e di discriminazione territoriale. Buffo, dato che Avellino e Pagani, città della Paganese, sono entrambe in Campania.

Non è che l’inizio, purtroppo. L’appartenenza ai colori della propria squadra del cuore comporta sudore, urla, passione, qualche bestialità ed eccesso. Mettere sullo stesso piano di una violenza o di un coro razzista sfottò e insulti sopportabili come «sei un pezzo di merda» è assurdo. A chi piacerà un calcio dove ogni parola detta allo stadio verrà sezionata e multata se non conforme allo standard del vittimismo imperante? Se l’obiettivo è riempire gli spalti di educande compiacenti che non possono più sfottersi a vicenda, a nessuno.

Tags: calciostaditifosiultras
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