Ma chi l’ha detto che il debito estero è una sciagura per il Terzo mondo, che solo la sua cancellazione totale può riportare la speranza fra i poveri, che si tratta di una diabolica astuzia del Nord per sfruttare il Sud? La verità è che ci sono paesi capaci di investire e far fruttare i soldi che prendono a prestito, e altri che dimostrano molta meno abilità. In generale, i paesi asiatici fanno parte del primo gruppo, quelli africani e centroamericani del secondo. I primi, infatti, presentano indebitamenti in valore assoluto molto più alti di quelli africani (dai 27 ai 154 mld. di dollari, contro un range africano che sta fra 1 e 8) e, con poche eccezioni, anche per quanto riguarda il debito pro capite (tolte Cina ed India, in Asia fra i 700 e i 2.700 dollari; tolto il Congo Brazzavile, fra i 90 e i 790 dollari in Africa). Ebbene, tranne che nel caso dell’India (che però sta facendo progressi) i redditi pro capite asiatici sono sempre superiori a quelli africani: fra i 600 e i 12 mila dollari, contro un range africano che sta i 100 e i 550.
Dal raffronto abbiamo tenuto fuori i paesi latinoamericani, che hanno una storia economica originale. Ma nel caso di Asia ed Africa il parallelo è fattibile: entrambe si sono liberate del colonialismo nel secondo dopoguerra, entrambe si sono indebitate negli stessi anni. Alcuni paesi addirittura sono partiti da un’identica base a livello di indicatori economici e sociali, e oggi si trovano in condizioni assolutamente diverse: è il caso di Ghana e Corea del Sud, che 45 anni fa presentavano livelli di reddito e di debito identici. Oggi un coreano è gravato da un debito estero che è otto volte più pesante di quello di un ghanese, ma il suo reddito è 21 volte più alto! E se paragoniamo fra loro paesi con un debito pro capite simile, per esempio Indonesia e Guinea Bissau (circa 700 dollari), o Etiopia ed India (circa 90 dollari), notiamo che anche in questi casi i redditi degli asiatici sono circa 4 volte più alti di quelli degli africani. Insomma, i debiti non bisogna evitarli, ma saperli fare.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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