
Te Deum laudamus per le dimore nel deserto intelligente

Anticipiamo il Te Deum scritto per il primo numero del mensile Tempi da Pier Paolo Bellini
Non è per nulla scontato (costretti a riflettere grazie a un invito di un amico) trovare un motivo per ringraziare Dio per il “dono” del 2017: non è per nulla scontato uscire dalla retorica dello “sperem” e pronunciare quella parola bambina, la parola speranza, unico futuro per la nostra esistenza gravemente invecchiata. D’altra parte, come aveva intuito Péguy, la speranza è capace di stupire Dio stesso, perché va controcorrente: che gli uomini vedano come vanno le cose e siano certi che domani andrà meglio è un fatto che neppure Lui si spiega. È dalle acque sporche che la bimbetta genera acqua pura. Come un bimbo nel deserto della città.
In questo 2017 ho visto “come vanno le cose”, mi sono tuffato nelle acque sporche, ho conosciuto il nuovo deserto della città, una conoscenza inedita e a tratti diretta del limite strutturale e di quello costruito, legittimato e imposto alla condizione umana. Un’età che avanza all’indietro progressivamente.
È stato l’anno in cui ho visto mancare una ragazza di 22 anni, ormai di famiglia, per una sciocchezza: l’ho vista lasciare un vuoto, un’urgenza di senso che non troverà pace qua.
Stupisce anche me essere certo che domani andrà meglio.
L’ansia e la psicosi
È stato l’anno in cui, per lavoro, ho dovuto approfondire le nuove frontiere del deserto, studiare le città nelle quali si sta costruendo (e lo si è già costruito) un modo di “sentire” le cose, un modo di sentire sé e il proprio senso nel mondo, che strozza quel bimbo, dicendo di fargli carezze.
Per dire Te Deum occorre, come prima cosa, riuscire a fare i conti con una alterità: tutto intorno a noi, con la benedizione di tanti cristiani, ci toglie la semplice, elementare coscienza che la soluzione dell’esistenza umana è legata al rapporto con un altro. Senza questo non c’è più dramma, c’è psicosi. Non c’è più diversità ma solo ripetizione e alienazione. Rimangono le poste in gioco insignificanti della vita privata.
Ho studiato la cultura che ci permette e ci stimola a sentirci legati con il permesso di pensare solo a noi stessi, che ci permette e ci stimola a percepirci come un insieme particolare di desideri, a considerare l’esistenza come sentimento.
Ho conosciuto la cultura che, pur non avendo più gli strumenti per abbracciare ciò che sta fuori di sé, vive il contrappasso dell’ansia della solitudine, vive la frenesia della “connessione totale”. Legati a niente e a nessuno e dipendenti dallo sguardo di tutti. Insieme, soli.
Ho studiato la cultura incapace di silenzio, terrorizzata dallo spazio che solo un altro può riempire, che dovremmo preservare scrupolosamente e che invece riempiamo di stronzate.
Stupisce anche me essere certo che domani andrà meglio.
Come il resto d’Israele
Ma per sperare occorre aver ricevuto una grande grazia. È grazia avere conosciuto l’unico efficace baluardo contro questa sorridente devastazione: l’amore al vero (un amore, l’unico, che ci fa respirare) condiviso con corpi, storie, limiti, spettacoli umani che non se la mandano a dire, che non ci costruiscono sopra, che capiscono il dramma dell’incoscienza dei propri fratelli e che, come il resto d’Israele, come un popolo di scampati alla spada, riconosce l’intervento di quel bimbo nella storia. Non una filosofia, una morale o una sensazione, ma un intervento storico che ha generato un corpo storico, non “di” questo mondo, ma pur sempre “in” questo mondo.
Te Deum laudamus, perché in questo deserto sempre più intelligente hai conservato dimore umane che, sperando contro ogni speranza, saranno ancora e per sempre l’unica speranza dell’anno che viene.
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