Te Deum, Antonio Simone: Per quei mesi “nudo” in carcere

Di Antonio Simone
28 Dicembre 2012
Dentro ho discusso di giustizia, di amore e di Dio più che in tutta la mia vita nella “società civile”. Ringrazio per questi uomini, come me, attendono un segno della misericordia presente

Come ogni anno, l’ultimo numero del settimanale Tempi raccoglie una serie di “Te Deum” di personalità significative all’interno del panorama sociale italiano. Nel numero che trovate in edicola a partire da giovedì 27 dicembre troverete i contributi di Angelo Scola, Luigi Negri, Alberto Caccaro, Aldo Trento, Luigi Amicone, Antonio Simone, Roberto Formigoni, Renato Farina, Mattia Feltri, Pippo Corigliano, Annalisa Teggi, Costanza Miriano, Davide Rondoni, Giampiero Beltotto, Maria Rita O., Antonio Gurrado, Cecilia Carrettini, Gian Micalessin, Lorella Beretta, Andrea Mariani, Berlicche e molti altri.
Pubblichiamo di seguito il te deum di Antonio Simone (qui le sue lettere a tempi.it durante i sei mesi di detenzione). 

Quando si sta in carcere metà dell’anno risulta difficile staccare il ringraziamento da questo evento. Previsto e imprevisto, pieno di domande e largo di risposte e poi il pensiero più triste: il tuo amico è ancora assurdamente in carcere. Che dire poi di quei ragazzi incontrati? Giovani, matti, adulti, consumati dalla droga e da quel luogo, pieni di domande a cui nessuno risponde e a cui da soli è ancor più difficile rispondere. Si è nudi in galera, tanto tempo per pensare, tanto tempo per capire da dove ricominciare, tanto tempo per vedere chi ti “vuole”, chi ti aspetta, da dove far partire una speranza. Di uscire, di cambiare, di vivere in pace, di rivedere i tuoi cari, di tornare uomo libero sempre dentro un mondo di merda.

Ecco cosa mi ricordo di più: il cammino durante l’ora d’aria o nel corridoio del terzo raggio di San Vittore. Dove per ore racconti e ascolti della tua vita e di quella degli altri, come in un convento da cui non puoi uscire e in cui cerchi ancora uno scopo per vivere, e non tutti ce la fanno, molti si uccidono, si fanno del male, si negano. Sembra incredibile ma ho discusso più lì che in tutta la mia vita dell’Annuncio a Maria di Claudel, di amore e di misura, di dio e di Dio, ovviamente di giustizia e di espiazione. Ringrazio perché quei colloqui i più li affrontavano “nudi” come raramente accade fuori fra la società cosiddetta civile dove ognuno parte più che vestito, spesso corazzato. Liberi di aprirsi, guardarsi dentro e disponibili a un confronto, a un giudizio, a un aiuto, desiderosi di una cosa sopra tutte le altre: il perdono, di qualcuno che possa avere misericordia di quei corpi e anime decisamente messi male. Già convinti che tutte le volte che si è fatto da soli si è caduti: per questo si cerca, difficile andare più sotto.

Che spettacolo parlare a 40 gradi tra mura alte 5 metri di Dio, dandogli coscientemente il volto di quanto, conosciuto e sperimentato, è rimasto vero e vivo nella propria storia. In carcere, come fuori, o Dio prende il volto di una misericordia, di una speranza sperimentata, o il volto di una lotteria, della sestina dell’enalotto: succede una volta su 600 milioni di casi, come l’aver giustizia, tanto vale maledirlo. E dentro la cella ha preso per me il volto di centinaia e centinaia di lettere ricevute da una compagnia eccezionale.

Ecco, io ringrazio per aver incontrato tutti questi carcerati, come me, centinaia di persone che nell’esperienza di un dolore atroce pensano, guardano, aspettano un segno. Grazie o Dio per avermi permesso di esserlo per alcuni, senza volerlo, solo perché “presente”, con l’educazione di una grande storia, quella di Cl, sopravvissuta all’idea che l’uomo sia definito più dagli errori che fa che da una misericordia presente.

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