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Solo il bene non è banale

Gli appunti finora inediti di Hannah Arendt sul male.Dal processo Eichmann alla rivalutazione della memoria,così il genio ebreo intuì la radicale positività dell'essere

Persico Roberto
08/11/2007 - 0:00
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Se c’è un pensatore che ha teorizzato e strenuamente difeso la distinzione tra sfera pubblica e privata, tra azione e pensiero, si tratta di Hannah Arendt. Che senso ha, allora, pubblicare ciò che ella stessa chiamava Denktagebuch (diario di pensiero)? In realtà più che di diari si tratta di quaderni di lavoro, in cui la Arendt trascriveva citazioni interessanti accompagnate da osservazioni personali o abbozzava linee di pensiero. Ecco il perché del titolo scelto dall’editore Neri Pozza di Vicenza: Quaderni e diari. 1950-1973 (a cura di Chantal Marazia, 55 euro).
Uno dei temi maggiormente ricorrenti in tali quaderni è quello del male. Non è un caso: la Arendt è stata uno dei primi filosofi a confrontarsi seriamente col fenomeno del totalitarismo, da lei stessa definito, in un frammento che risale all’aprile 1951, «fenomeno limite della politica (il male radicale)». L’espressione è tratta da Kant, ma la Arendt le dà un nuovo spessore. Il male radicale indica ciò che non sarebbe dovuto accadere, ciò che va oltre la capacità umana di riconciliarsi e di punire. Tale ulteriorità del male rispetto alla condizione umana è ben espressa in un altro frammento dell’aprile 1953: «Il male radicale è tutto ciò che è voluto indipendentemente dagli uomini e dalle relazioni che sussistono tra loro». In altre parole, è ciò che rende impossibile l’esistenza plurale degli uomini. In tal modo la Arendt coglie il senso più profondo del fenomeno totalitario, il suo segreto: costruire una società di uomini superflui, ridotti a fasci di reazioni istintuali e incapaci di parola e azione, vale a dire di perseguire il senso della loro esistenza. I campi di concentramento (i Lager e i Gulag, nonché i Laogai cinesi tuttora esistenti) sono esperimenti che vanno in tale direzione.
Eppure la Arendt è passata alla storia per aver coniato un’altra espressione che sembra fare a pugni con ciò che abbiamo detto sinora: la banalità del male. Si tratta di una questione assai importante, uno degli esperimenti di pensiero arendtiani più spericolati e più attuali, di cui non c’è quasi traccia nei quaderni di cui stiamo parlando. In realtà, esaminando il materiale inedito custodito nella Library of Congress a Washington D.C., ci si accorge che a questo tema la Arendt ha dedicato molte energie. Sono parecchi i faldoni che contengono il materiale relativo al processo Eichmann e alla virulentissima polemica che scoppiò in seguito alla pubblicazione del resoconto che la Arendt ne fece per il New Yorker , sottotitolo appunto “Rapporto sulla banalità del male” (1963).
Nel 1961-62 Adolf Eichmann venne processato a Gerusalemme. Si trattò della prima e unica condanna a morte comminata dallo Stato israeliano nel corso della sua storia. Tale “privilegio” toccò al tenente colonnello delle SS che aveva organizzato il trasporto ferroviario di milioni di ebrei attraverso l’Europa verso i campi di sterminio. Per una di quelle dinamiche preterintenzionali che rendono interessante lo studio della storia, il processo, pensato dal governo israeliano come momento di denuncia al mondo del male inflitto agli ebrei, divenne occasione di una catarsi collettiva del popolo israeliano. Gli ex deportati erano sino ad allora vissuti in Israele nascondendo la propria vicenda come una vergogna di cui tacere. Non erano loro i modelli umani che il paese additava ai giovani, ma piuttosto gli eroi morti nella battaglia del ghetto di Varsavia o i contadini nei kibbutz col fucile in spalla. Invece il processo si trasformò in una tragica passerella di testimonianze che mostravano a tutta la società israeliana cos’era stata veramente la Shoah.

Adolf, un burocrate inetto
Il pubblico del processo si aspettava di trovarsi di fronte a un “mostro”. In realtà – questa è almeno la tesi della Arendt – Eichmann si rivelò essere un inetto, quasi ridicolo nel suo linguaggio burocratico pieno di formule stereotipate, caratterizzato essenzialmente dall’incapacità di pensare e di giudicare autonomamente, di percepire la realtà nella sua complessità. Si trattò di un’esperienza sconvolgente per la Arendt, che dovette ritornare sulla sua tesi del male radicale. Non per rigettarla ma per renderla più completa. È interessante che ben prima del processo Eichmann, nel settembre 1951, la Arendt aveva già colto alcuni sintomi psicologici del male radicale che vanno nella direzione esemplificata dall’imputato: l’«assoluta mancanza di immaginazione», che impedisce il giudizio, e una passione abnorme per il ragionamento logico, strutturalmente incapace di condividere i punti di vista altrui. Tale tesi espose la Arendt a una polemica così violenta da alienarle la simpatia di molti amici ebrei, che la accusavano di insensibilità nei confronti della tragedia del popolo. Ma la tesi della banalità costituiva un reale progresso teoretico verso la comprensione del male. In una lettera del 24 luglio 1963 al grande studioso Gershom Scholem, la Arendt scriveva: «Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso “sfida” (.) il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”. Solo il bene è profondo e può essere radicale». L’amico e maestro Karl Jaspers colse acutamente che tale passaggio teorico costituiva la confutazione più profonda di ogni manicheismo e di ogni gnosticismo. In altre parole: l’affermazione della radicale positività dell’essere.

Quei pochissimi che resistono
La Arendt continuò a riflettere a partire da Eichmann per il decennio successivo che le rimase da vivere. L’ufficiale delle SS forniva una chiave ermeneutica per comprendere il fenomeno della Gleichschaltung, l’allineamento della maggior parte della popolazione tedesca con le direttive naziste, l’incapacità di pensare e giudicare autonomamente di fronte al folgorante successo di Hitler. Eichmann era il prototipo dell’uomo comune che fa il male non per piacere o per intima convinzione ideologica, ma per dovere. E ciò spiega la tragica e inaudita moltiplicazione del male nei regimi totalitari. Ma, quasi inconsapevolmente, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta la Arendt ci fornisce anche una sorta di fenomenologia del bene, quando fu costretta a chiedersi che cosa indusse quei pochi che rifiutarono la Gleichschaltung a comportarsi così. Costoro sono chiamati dalla filosofa con un termine mutuato da Otto Kirchheimer, i “non-partecipanti”. Tale caratterizzazione negativa indica che nei “tempi bui” del male totalitario il bene emerge essenzialmente come resistenza, rifiuto, non-adesione, dis-obbedienza. E il presupposto fondamentale di tale atteggiamento è individuato dalla Arendt nella «predisposizione a vivere assieme a se stessi», vale a dire a esercitare quel dialogo silenzioso che è il pensiero.
In altre parole, dal punto di vista morale non è tanto importante che l’uomo sia un essere razionale, quanto che sia un essere che pensa e ricorda. Pensare e fare memoria delle cose passate significa infatti «muoversi nella dimensione della responsabilità, mettere radici e acquisire stabilità, in modo tale da non essere travolti da quanto accade (.). Il peggior male non è dunque il male radicale, ma è il male senza radici. E proprio perché non ha radici, questo male non conosce limiti» (Responsabilità e giudizio, Einaudi, pag. 81). Il pensiero e il ricordo costituiscono il presupposto per il generarsi della personalità, di quel nucleo psicologico che permette all’individuo di prendere posizione.

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La vittoria dei Giusti
La Arendt ci fornisce così una chiave di lettura per interpretare uno dei fatti più rilevanti del secolo scorso, vale a dire il fenomeno dei Giusti, di coloro che, mettendo a repentaglio la propria vita o quella dei propri cari, si sono opposti al male radicale aiutando il prossimo o semplicemente mantenendo un’autonomia di giudizio e di azione. A Yad Vashem, il museo della Shoah di Gerusalemme, esiste da tanti anni il Giardino dei Giusti, un luogo dove vengono ricordati i “gentili” che hanno aiutato gli ebrei. Ci sono nomi famosi tra loro: Oskar Schindler, Giorgio Perlasca eccetera. A partire da questo primo giardino uno studioso ebreo italiano, Gabriele Nissim, ha fondato un’organizzazione internazionale (Gariwo) che si propone di fare memoria di tutti i Giusti che si sono distinti nei vari casi di genocidio che hanno caratterizzato il secolo scorso, dall’Armenia a Sarajevo. È un approccio vincente pure dal punto di vista educativo. Studiare il male radicale del Novecento a partire dalla memoria del bene significa permettere ai giovani un processo di identificazione con gli “eroi” che non implica alcuna censura del male. È ciò che hanno mostrato Antonia Grasselli e Sante Maletta nel volume I Giusti e la memoria del bene (Cusl, 2006) e che ogni giorno sperimentano i docenti della Rete Storia e Memoria. I Giusti hanno messo radici, poiché solo il bene, e non il male, può essere radicale.
Raffaele Mancini

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