Per Inzaghi e l’Inter la finale di Champions è l’unica cosa che conta

Di Sandro Bocchio
31 Maggio 2025
Persi scudetto e Coppa Italia, i nerazzurri puntano tutto sulla partita contro il Psg. E se oggi sono a Monaco è grazie a un allenatore che ha riportato la dimensione internazionale che mancava dai tempi di Mou
Simone Inzaghi Lautaro
L'allenatore dell'Inter, Simone Inzaghi, saluta i tifosi a San Siro con il capitano nerazzurro, Lautaro Martinez (foto Ansa)

Spalle al muro. Così l’Inter affronta quello che – nell’immaginario collettivo – è l’ultimo atto della stagione. Ovvero la finale di Champions League, tradizionale festa conclusiva del calcio europeo. Quest’anno non sarà così perché a giugno va in scena il Mondiale per club voluto da Gianni Infantino, il presidente Fifa impegnato nella corsa al gigantismo planetario fatto di nuovi tornei con sempre più partecipanti, per agganciare sponsor. Ma è un appuntamento che i tifosi sentono lontano e non solo perché Inter e Juventus, le italiane ammesse, giocheranno negli Stati Uniti. Per il popolo nerazzurro ciò che conta è oggi, sabato 31 maggio, giorno della finale a Monaco di Baviera, con il Paris Saint-Germain.

La nuova dimensione europea dell’Inter

Sul piano interno l’Inter si presenta malconcia. Era la grande favorita su ogni fronte, li ha falliti tutti: due volte superata dal Milan (finale di Supercoppa e semifinale di Coppa Italia) e beffata di un punto in campionato, seconda dietro il Napoli. L’ultimo turno, in contemporanea venerdì 23 maggio, aveva un verdetto già scritto: improbabile immaginare un sorpasso negli ultimi 90 minuti. L’Inter aveva perso l’occasione buona nella giornata precedente, incapace di battere in casa la Lazio, mentre il Napoli veniva fermato sul pari a Parma. Tre flop su tre.

In Europa il discorso è differente. A posteriori, e in caso di sconfitta, sarà considerato un errore aver puntato tutto sulla Champions, ma nel torneo i nerazzurri hanno dimostrato di aver assunto una dimensione internazionale assente dai tempi di José Mourinho e del Triplete.

I meriti di Simone Inzaghi

È uno dei meriti da ascrivere a Simone Inzaghi, finalista per la seconda volta nel giro di tre anni. L’ultimo italiano a riuscirvi era stato Massimiliano Allegri con la Juventus, battuta nel 2015 dal Barcellona e nel 2017 dal Real Madrid. Nel 2023 l’Inter era stata sconfitta a Istanbul dal Manchester City, una partita iniziata da vittima designata e chiusa con più di un rimpianto. Inzaghi vi era giunto con la forza delle idee e, soprattutto, della ferocia agonistica, quella che ti sostiene anche se l’avversario è più forte.

Una caratteristica che ha accompagnato la sua carriera e quella del fratello: Filippo e Simone, centravanti legatissimi l’un con l’altro. «È come se fossimo gemelli», ripete il nerazzurro. Da calciatore ha avuto più gloria Pippo, da allenatore è stato più bravo Simone. Inzaghi senior ha pagato il debutto deludente con il Milan 2014-’15, quando Berlusconi e Galliani lo vollero per rinnovare i fasti di altri ex rossoneri divenuti vincenti da tecnici (Fabio Capello e Carlo Ancelotti). Si è rifatto come signore delle promozioni in provincia: a Venezia, a Benevento e, quest’anno, a Pisa. Una Serie A raggiunta tre giorni prima che il fratello scrivesse un nuovo capolavoro in Europa, la semifinale di ritorno con il Barcellona che ha aperto le porte all’ultimo atto.

Nel 2023 Inzaghi vi era arrivato con affanni pregressi. In campionato l’Inter si era presto arresa al Napoli di Luciano Spalletti e non erano bastati i bis in Coppa Italia e Supercoppa: tanti rimpiangevano Antonio Conte, allenatore dello scudetto 2021. Due volte Inzaghi si era trovato in bilico in Europa, agli ottavi con il Porto e ai quarti con il Benfica. Era pronto Cristian Chivu, dalla Primavera, come traghettatore. Il tecnico puntò sull’Europa e vinse. Non la finale con il City, ma la possibilità di restare in panchina. 

Le energie mancate in Italia erano in Champions

Anche stavolta l’Inter ha trovato in Champions le energie mancate in Italia. Molti hanno criticato certe scelte, della società sul mercato e dell’allenatore in panchina. Pochi ricordano come le prime siano state determinate dalle difficoltà della proprietà Suning, impossibilitata a ripetere i fasti contiani, fatti di quasi 200 milioni investiti. Inzaghi ha dovuto gestire anche il passaggio del club a Oaktree, che ha quasi imposto un autofinanziamento.

Pochi soldi e spazio ai parametri zero, o quasi, con successi (Francesco Acerbi e Marcus Thuram) e delusioni (Marko Arnautovic e Mehdi Taremi). Ha puntato sull’ossatura verticale e centrale dalla difesa all’attacco (Sommer in porta, Acerbi in difesa, Çalhanoglu a centrocampo, Lautaro centravanti), costruendo il gruppo intorno. Ha evidenziato fatiche e imposto scelte tattiche che hanno inciso sulla lotta scudetto prima dei match di coppa – il pareggio di Parma e il ko interno con la Roma –, è stato ripagato da partite memorabili in Europa contro avversarie strafavorite: i quarti con il Bayern e poi il Barcellona.

Soprattutto, particolare di non poco conto, ha inanellato un cammino che garantisce 114 milioni di premi Uefa, che diventano 132 in caso di vittoria, cui aggiungere i 40 incassati a San Siro. Soldi che consentiranno un mercato finalmente aggressivo per allestire la nuova squadra, come dimostrano i 15 milioni di gennaio per Petar Sučić. Un allenatore così redditizio, nel calcio dei fondi d’investimento, Oaktree se lo tiene stretto. Ma agli occhi dei tifosi conta sempre l’albo d’oro: Inzaghi e l’Inter lo sanno benissimo.

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