
Si vota in Kenya e torna lo spettro delle violenze

Si vota da stamattina in Kenya per scegliere il settimo presidente della sua storia, e l’Africa orientale osserva col fiato sospeso. I sondaggi dicono di un testa a testa serratissimo fra i due principali candidati, l’ex primo ministro Raila Odinga, dato leggermente favorito, e il vicepresidente uscente William Ruto.
Il Kenya è fondamentale per l’Africa
Se l’esito finale non dovesse essere riconosciuto dal perdente, non sono da escludere disordini come quelli che seguirono le elezioni del 2007, che non solo causarono un migliaio di morti nel paese, ma provocarono penurie negli stati della regione dei Grandi Laghi: Uganda, Tanzania, Ruanda, Burundi, regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo.
Il Kenya rappresenta il punto di approdo navale e lo snodo stradale da cui transitano le merci destinate al cuore dell’Africa, provenienti da Asia, paesi arabi ed Europa. Se si blocca, l’intero sistema economico e di assistenza umanitaria della regione va in stallo.
Il fattore etnico nelle urne
La settima elezione presidenziale dopo la fine del sistema a partito unico e la reintroduzione del multipartitismo in Kenya presenta due grosse novità rispetto al passato: per la prima volta nessuno dei candidati più accreditati appartiene alla principale etnia del paese, quella dei kikuyu, e per la prima volta il capo dello Stato uscente non più rieleggibile non appoggia il suo vicepresidente o un altro suo delfino, ma colui che in passato è stato il suo avversario giurato. Da sempre il fattore etnico ha grande importanza nelle elezioni kenyane, a motivo della struttura clientelista e patrimonialista dello Stato. Diritti di sfruttamento delle terre, licenze commerciali, servizi pubblici sono le tre materie politiche più scottanti del paese e più impattanti sulla vita dei cittadini comuni.
Per accedere alle tre risorse è preferibile votare un candidato della propria etnia, che in caso di vittoria privilegerà gli appartenenti al proprio gruppo e in caso di sconfitta appoggerà la reazione violenta del gruppo penalizzato. Studi sul campo hanno verificato che le comunità locali che hanno nel governo regionale o nazionale un governatore o un ministro o un capo di Stato della loro stessa etnia, sono quelle che ricevono di più in termini di servizi pubblici e di terre per la coltivazione o l’allevamento. I candidati a loro volta giocano convintamente la carta etnicista in occasione delle elezioni al fine di conservare i benefici economici acquisiti con la partecipazione al sistema politico: presidenti, governatori e ministri normalmente possiedono attraverso dei prestanome grandi società che vincono gli appalti più lucrosi o detengono concessioni pubbliche fonti di grandi profitti. Perdere o vincere un’elezione coincide con la rovina o col successo economico della propria famiglia.
L’insolita alleanza
In Kenya le etnie sono 40, ma le principali sono cinque: kikuyu (22 per cento), luhya (14 per cento), luo (13 per cento), kalenjin (12 per cento) e kamba (11 per cento). Il conflitto più ricorrente nelle violenze post-elettorali è quello che contrappone kikuyu e kalenjin, dove i primi sono stati vittime di razzie e uccisioni da parte di bande dei secondi in occasione delle elezioni del 1992, 1994, 1997 e 2007. Tuttavia alle presidenziali del 2013 e del 2018 i kenyani si sono trovati davanti a un ticket formato da un kikuyu e da un kalenjin: Uhuru Kenyatta, figlio del primo presidente del Kenya indipendente Yomo Kenyatta, e William Ruto, ministro nei governi del presidente Mwai Kibaki.
Due i motivi dell’insolita alleanza: il primo è che i due erano indiziati di crimini contro l’umanità presso la Corte Penale internazionale come mandanti delle stragi post-elettorali del 2007/08, e la loro riconciliazione creava le condizioni per togliersi dai pasticci (come poi è effettivamente stato); una nuova legge elettorale ha stabilito che per essere eletti capi dello Stato non basta più ottenere il 50 per cento più uno dei voti al primo o al secondo turno, ma occorre anche che il risultato sia tale in almeno 24 delle 47 contee del paese. Ciò significa, in buona sostanza, che non basta fare il pieno dei voti dei propri consanguinei tribali per diventare presidente, ma bisogna essere capaci di creare alleanze inter-etniche.
Inflazione e debito sono alle stelle
Come si diceva sopra, una novità delle presidenziali kenyane sta nel fatto che il presidente uscente Kenyatta, anziché appoggiare il suo alleato quasi decennale Ruto, vicepresidente per due mandati, ha deciso di sponsorizzare Raila Odinga, suo accanito avversario nelle due precedenti elezioni. Il raffreddamento dei rapporti fra Ruto e Kenyatta e lo strano partenariato fra quest’ultimo e Odinga, un 77enne che si presenta per la quinta volta alle presidenziali, sono iniziati quasi subito dopo le elezioni del 2017. Dietro probabilmente ci sono questioni di affari più che di politica: Odinga, figlio del primo vicepresidente del paese, ha sempre rappresentato l’opposizione radicale all’establishment kenyano (il suo partito si chiama Movimento democratico arancione) e ha trascorso buona parte degli anni Ottanta e primi anni Novanta in carcere o agli arresti domiciliari in quanto oppositore dell’allora padre padrone del paese, il presidente Daniel Arap Moi.
Non tutti i kikuyu, però, sembrano voler seguire le indicazioni di voto del capo di Stato uscente: nella regione del Monte Kenya, roccaforte kikuyu, i sondaggi dicono che molti elettori daranno la loro preferenza al kalenjin Ruto, che ha mantenuto le sue promesse durante le due presidenze di Kenyatta, anziché al luo Odinga, percepito come uno storico nemico da cui guardarsi. D’altra parte le violenze post-elettorali del 2007/08 videro contrapporsi, in linea generale, kikuyu, kamba e kisii da una parte, kalenjin, luo e luhya dall’altra.
I principali problemi economici del Kenya – la prima economia dell’Africa orientale – sono il tasso di inflazione all’8 per cento, il più alto negli ultimi cinque anni, e un debito estero che si porta via per il pagamento degli interessi la metà delle entrate fiscali dello Stato. Uno dei primi compiti del nuovo presidente, chiunque egli sia, sarà di negoziare una ristrutturazione del debito coi creditori: Cina, Giappone, banche commerciali, Ida (International Development Association, affiliata alla Banca Mondiale), Ifad (International Fund for Agriculture Development, agenzia specializzata Onu) e Fmi.
Foto Ansa
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