Si guadagna in salute se il marito si “ammazza” di lavoro?
L’ultima illuminante correlazione tra lavoro e salute, peraltro rilanciata da parecchi quotidiani, mi ha lasciata confusa: “Più il marito lavora (anche se il senso è: più il marito guadagna), tanto più la moglie godrà d’ottima salute”. Il motivo è che se il marito assicura una migliore condizione economica anche alla consorte, lei potrà adottare stili di vita più salutari: iscrizioni in palestra, cure termali, esperti di alimentazione… Una deduzione peraltro abbastanza banale: una famiglia più abbiente verosimilmente godrà di una salute migliore, grazie ai maggiori mezzi a disposizione per prevenzioni e cure. Tuttavia, in tanto sprecar parole sul benessere fisico, c’è un punto che nemmeno si prova a toccare. Ma che io, in quanto moglie (e fortemente dipendente dal lavoro del consorte), sento urgere: a che prezzo si ottiene tanta vitalità e soprattutto a quale scopo?
Alla luce dello studio americano sopra citato, da un certo punto di vista, da oggi potrei smettere di innervosirmi così tanto quando lui si intrattiene oltremisura in ufficio e godermi pacifica i benefici del vicino scatto di carriera. Per dire: se fino a ieri lo avrei fulminato sullo zerbino armata di dito indice puntato all’orologio, da oggi potrei iniziare ad accoglierlo provvista di un fresco aperitivo di benvenuto e sorridente come una fetta di melone. Sia chiaro: non che d’ora in avanti io muoia dalla voglia di cenare da sola, pensando di nutrire solo il nostro conto in banca; ma se c’è di mezzo la salute… Per un attimo, un pensierino, lì per lì, l’ho fatto anche io.
Poi mi son detta: ma se la sera lui stramazza di lavoro sopra un desolato tavolo-riunioni, come cavolo farebbe a rallegrarsi al pensiero di me che nel frattempo giaccio sotto le mani rinvigorenti di un giovane massaggiatore indiano?
Sono certa che non la coglierebbe come una splendida opportunità.
Scommetto piuttosto investirebbe un eventuale maggior guadagno in corsi d’aggiornamento, che a quanto ribadisce sempre, ringiovaniscono non solo il corpo, ma anche il cervello. Ovviamente, per la sottoscritta non sceglierebbe un corso qualunque: opterebbe per il meglio; come il gotha di un ciclo di seminari in economia domestica: “rammendo-cucino-riassetto….”. Certo, dovrei mordermi la lingua e trattenermi come l’irpef in busta paga per digerire la scelta, ma tant’è.
Sempre che per “migliorare” invece la sua, di salute, non mi proponesse di investire in beni di sicuro conforto: whisky d’annata, sigari cubani, una nuova playstation…
Mi sono anche chiesta cosa accadrebbe se si scambiassero i ruoli: e se fossi io a super lavorare, apportando alle casse familiari il benefit pro-salute? Ma in generale, il lavoro straordinario femminile non procura un aumento d’entrate paragonabile a quello degli uomini. Occorrerebbero perlomeno orari imprevedibili, trasferte inderogabili… Non mi ci vedo proprio per tre sere di fila in chissà quale hotel d’affari, in pasto a un team di broker giapponesi senza scrupoli e lontani da casa da due settimane. Figuriamoci mio marito! Davanti all’immagine di me, vestita di tailleur in taglio geisha, il maschio alfa si corruccerebbe, gonfierebbe il petto di gelosia e, andando a letto, deciderebbe di continuare a mantenere con orgoglio la famiglia.
Ma se a questo punto, la mia salute andasse anche a dormire in una botte di ferro, mi sorge un dubbio: la coppia ne trarrebbe altrettanto giovamento? Ne sono parecchio perplessa.
Innanzitutto, per il costo: dagli articoli che sbandierano il legame stipendio-salute, pare che questa “salute” si riesca a comperare al prezzo di una maggiore mole di lavoro; addirittura si legge “se il marito si ammazza di lavoro”; come se il lavoro – palesemente investito di carica negativa – fosse una maledizione da fuggire, anziché un mezzo che nobilita l’uomo.
L’altro punto che resta troppo spesso all’oscuro è: non che la salute non sia un valore – sia chiaro – ma cosa me ne faccio, se poi al giorno d’oggi la malattia più grande è il disagio, la depressione che nasce dal non riuscire a cogliere l’utilità di essere al mondo? I media di oggi puntano tutti l’attenzione sul benessere fisico, stando ben attenti a non addentrarsi a ragionare in una prospettiva più grande, che abbraccia anche il benessere – certo – ma un benessere inteso in senso più ampio. Per esempio, che ne è di una moglie che è contenta perché è fiduciosa di stare costruendo qualcosa in termini di famiglia e partecipa a un progetto comune col marito, progetto che passa anche attraverso il lavoro di lui? Non sarà anche questa una forma di benessere, magari anche maggiore di quello esclusivamente corporeo? Non se ne parla. L’importante è la salute, quella fisica.
E se la prossima promozione di mio marito verrà bocciata? Sarà se non altro l’occasione per affrancarsi dall’immagine mediatica di un uomo schiavo del lavoro, di una donna schiava della vanità e domandarci se e perché l’avanzamento era poi così importante. In tal caso, vorrà dire che ci giocheremo la strategia del “Less is more”.
Così, se poi si scoprisse che è quella vincente, saremo preparati.
Vorremmo mai che ci venisse un infarto proprio sul più bello…
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2 commenti
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In alternativa potrebbe trovarsi un qualche “diversivo” che sicuramente la rilasserebbe e la renderebbe meno confusa…..ah ah ah
Questo articolo propone tutto meno che il buon senso. Se invece di fare tutte queste contorsioni mentali, la casalinga in questione si trovasse un lavoro e senza dover fare straordinari o trasferte in paesi esotici si limitasse a rendersi indipendente magari anche contribuendo al bilancio famigliare, probabilmente acquisterebbe in dignità nel non farsi più mantenere dal consorte.