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Sta andando in scena una piccola ma significativa vicenda in quel di Vicenza. Il 27 maggio, dopo una serie di segnalazioni da parte dei docenti circa l’abbigliamento discinto di molte studentesse, la preside del liceo Fogazzaro, Maria Rosa Puleo, fa il giro delle classi a bacchettarle. La ramanzina da talune viene colta, da talaltre invece ritorta nel segreto contro la preside, che in men che non si dica si trova accusata di bodyshaming e di essere sessista, grassofobica e paternalista.
La cosa giunge all’orecchio delle maggiori testate. Il 3 giugno 300 studenti di diversi licei vicentini scioperano in strada protestando contro di lei. Il 4 il Corriere della Sera la intervista. La Puleo conferma di aver rimproverato le studentesse perché «non adeguate» quanto ad abbigliamento «al contesto in cui si trovano», ma nega di aver dato note disciplinari o elargito insulti; si para con lo scudo dell’essere stata «un’attivista, una femminista»; e conclude in maniera che fa riflettere. «Credo di dover andare in pensione», confessa infatti all’intervistatrice. «Mi sforzo di capire l’atteggiamento dei ragazzi ma non ci riesco: si avvicinano all’età adulta e non hanno neppure avuto il coraggio di venire da me per provare a trovare una soluzione, prima di scatenare questo putiferio». All’Ansa aveva aggiunto: «In 10 anni non sono mai dovuta arrivare a un regolamento specifico [sui vestiti] ma questa volta lo farò».
«Non sono venuti da me»
Il fatto in sé non è la rivoluzione francese, tuttavia è epifenomeno di linee di tendenza tipiche nella scuola italiana odierna.
Non mi riferisco innanzitutto al fatto che le studentesse mettano in mostra parti che dovrebbero restare velate (e che, aggiungo, i maschietti talora le raggiungano in classe in simil-pigiama). Il punto più grave è un altro: l’incomunicabilità tra preside e studenti, la ramanzina e il rifiuto gonfiato oltre ogni misura, che rifugge ad un confronto diretto ma si scatena immediatamente in protesta collettiva e anonima, sit-in, cartelli, casino. «Si avvicinano all’età adulta e non hanno neppure avuto il coraggio di venire da me per provare a trovare una soluzione» è la constatazione più mortificante e amara cui un educatore possa giungere: perché significa appunto non avere educato.
L’amore, la morale, lo strazio
Se togliamo dai presupposti della scuola il compito di educare, cosa resta? Le regole. Un giogo cui obbedire sbuffando – non è più tempo di serie contestazioni fra i ragazzi, a meno che per contestazione non s’intenda Free the Nipple -, per far quel che pare e piace alla prima occasione. Allora il confine per i centimetri della gonna e le concavità delle scollature non scaturisce da un giudizio sensato su sé stesse e sul luogo in cui si trovano, ma dall’inchiostro del regolamento d’istituto.
Per assecondare la nascita di uomini e donne dai ragazzi e dalle ragazze occorre l’amore di un rapporto educativo autentico; e tanto più questo manca, quanto più l’occasionale calata dall’alto dell’istituzione con la sua riproposizione di regole, in un contesto generale che fa di tutto per ribadire che di regole non ce ne sono, non solo non viene accolta, ma addirittura viene ricusata con violenza. Scriveva Albert Camus sui suoi Taccuni: «Bisogna incontrare l’amore prima di aver incontrato la morale. Altrimenti, lo strazio».
Scatolette e fiori
Ma in Italia, dove il 90 per cento e passa delle istituzioni scolastiche è in mano allo Stato, pare che si sia abdicato, tra i presupposti della scuola, a farne un luogo di relazione e di educazione. L’arduo ma decisivo compito è lasciato alla libera iniziativa dei singoli docenti di buona volontà, e nessuno li incoraggia in questo, perché sporcarsi le mani con gli altri è sempre più visto con sospetto. Su questo anche i dirigenti e il personale delle scuole paritarie, specialmente di ispirazione cattolica, devono vigilare, poiché non c’è nulla di scontato.
Eppure sono certo che ciascuna ragazza che mostra in classe ciò che non deve non veda l’ora che qualcuno la guardi, adulto o amico, non come una scatoletta di tonno da aprire, ma come un fiore unico e bellissimo. Perché questo giudizio, di cui c’è bisogno come aria, mi sembra che non gli arrivi più da nessuna parte.
Foto Ansa