Scongeliamoci, è la fine della guerra civile italiana?
Il disgelo e lo scongelamento. La situazione politica italiana galleggia tra queste due esperienze, meteorologica una, preculinaria l’altra. Di inizio di disgelo si può parlare tra Partito democratico e Popolo della libertà con il coinvolgimento di Scelta civica, fautore il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Quanto allo scongelamento, come da superba richiesta in diretta streaming ai parlamentari del Movimento 5 Stelle, Enrico Letta può attendere. Già tramontato il lodato “modello Sicilia” – dove i “cittadini” parlamentari dell’isola votavano di volta in volta i singoli provvedimenti della giunta Crocetta finché è arrivata la volta che non li hanno votati più – non si vede come a Roma l’agitazione mediatica e piazzaiola in cui si sostanzia la politica grillina possa cambiare di metodi e contenuti. Non che il disgelo iniziato tra Pd e Pdl gonfi già di acque impetuose i torrenti della politica. Le resistenze, soprattutto nel Pd, sono forti e più numerose di quanto si creda. Giuseppe Civati, che ha dichiarato apertamente che sarebbe uscito dall’aula di Montecitorio al momento del voto di fiducia per non trasgredire né all’ordine del partito pro fiducia né alla sua coscienza politica che gli dice di votare no, è uno che dice in pubblico quello che altri pensano e non osano dire.
La fiducia, come era nella logica delle cose, alla fine c’è stata. Ma fino all’evidenza del fatto tutti, pur scommettendoci, sono stati con il fiato sospeso, tanto si era fatto strame di ogni logica, razionalità politica e buon senso durante le votazioni per il presidente della Repubblica. La svolta verso il disgelo inizia con lo stallo generato dall’intestardimento di Pier Luigi Bersani nel sogno di un governo di minoranza sostenuto dall’appoggio di Grillo o di parte dei suoi parlamentari, un tentativo infrantosi contro il muro di insulti dei Cinque Selle, proseguito con l’affossamento della candidatura Marini per il Quirinale e con l’autotrappola del lancio di Romano Prodi con il quale c’è sempre un problema di pallottoliere: non gli bastavano i voti del Pd, e non solo non sono arrivati gli 8 suffragi mancanti ma ne sono venuti meno addirittura 101. Ancora adesso il già citato Civati dice che bisognava «votare Rodotà e spaccare il Movimento 5 Stelle. Provare a fare il governo con una parte di loro». Un detto siciliano recita: «La fissazione è peggio della malattia», e a proposito di intelligenza politica c’è chi si chiede che cosa avrebbe risposto il gruppo parlamentare del Pd a un’offerta dei grillini che avesse come scopo quello di «spaccare il Pd» per poter governare con una parte di esso. Il rischio, osserva qualcun altro dietro rigoroso anonimato, era che buona parte dei parlamentari democrat non avrebbe declinato l’offerta, essendo molti di essi «mentalmente grillini».
Basta con le scomuniche
Lo stallo è stato superato da una decisione personale più che politica, quella di Giorgio Napolitano di accettare la rielezione a capo dello Stato. Non ha senso vagheggiare di inciuci e di accordi indicibili, è tutto avvenuto sulla scena e il presidente della Repubblica ha detto chiaro nel suo storico discorso al Parlamento (è uno dei rari casi in cui l’uso di questo aggettivo è giustificato) ciò che ha detto nelle riservate stanze del Quirinale ai leader dei partiti che gli hanno chiesto di ricandidarsi: «Ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinnanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinnanzi al paese». Le “conseguenze” con le quali il capo dello Stato tiene in pugno i partiti che l’hanno rieletto sono due. La prima è lo scioglimento delle Camere, temuto soprattutto dal Pd, un partito in fase precongressuale e a rischio esplosione, cui in questo momento non arridono i sondaggi (va detto che anche i grillini non amano l’ipotesi di elezioni anticipate). La seconda “conseguenza”, la vera arma letale con la quale Napolitano tiene in apprensione soprattutto il Pdl, è il gesto delle sue dimissioni. Non è per «prendere atto dell’ingovernabilità che ho accolto l’invito a prestare di nuovo giuramento come presidente della Repubblica», ha detto Napolitano alzando la voce in altri passaggi commossa, ma «perché l’Italia si desse nei prossimi giorni il governo di cui ha bisogno». Con queste due condizioni Napolitano ha convinto due forze politiche logorate da anni di reciproca scomunica a superare «l’orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse», tacciando questo atteggiamento di irresponsabilità di fronte alla situazione drammatica in cui versa il paese, «un segno di regressione», di una politica incapace di fare i conti con la complessità della realtà e con il momento eccezionale di emergenza del paese. Quella di Napolitano è stata una testimonianza umana di “dedizione” per il paese, come l’ha definita Enrico Letta all’inizio del suo discorso alla Camera quindi una forte sottolineatura dell’idealità che deve animare la politica e nello stesso tempo una lezione di realismo, un ritorno alla realtà. Bisogna «fare i conti con la realtà delle forze in campo nel Parlamento da poco eletto» ha detto il presidente della Repubblica nel suo discorso, e bisogna osare un lavoro comune puntando sulle «grandi riserve di risorse umane e morali, d’intelligenza e di lavoro di cui disponiamo», ha aggiunto citando il suo intervento al Meeting di Rimini del 2011, quando con lucidità aveva delineato, proprio davanti a Enrico Letta, il percorso di riappropriazione del suo compito che la politica doveva intraprendere.
Tra Repubblica e Corriere
Il richiamo del presidente alla responsabilità riguarda anche altri attori della vita pubblica, come ad esempio la stampa, chiamandola a rispondere della «molta leggerezza» con la quale ha cavalcato «l’insoddisfazione e la protesta verso la politica, i partiti, il Parlamento» che «sono state con facilità alimentate e ingigantite da campagne di opinione demolitorie, da rappresentazioni unilaterali e indiscriminate in senso distruttivo del
mondo dei politici, delle organizzazioni e delle istituzioni in cui essi si muovono». Il governo “politico” (Napolitano) e “di servizio al paese” (Enrico Letta) che ha appena ottenuto la fiducia potrà ora forse godere dell’attenzione non pregiudizialmente ostile del principale quotidiano italiano. Mentre dalle pagine della Repubblica trasuda un po’ di imbarazzo (il percorso Bersani, Rodotà, Prodi con le sue velleità e il suo approdo fallimentare non è stato indolore), anche perché attaccare il governo Letta vuol dire attaccare direttamente Napolitano visto l’asse (che ha radici nel tempo come il capo dello Stato ha tenuto a sottolineare) tra i due,
il Corriere della Sera – dopo lo scotto del risultato al di sotto delle aspettative del progetto Monti-Scelta civica – può vantare la realizzazione se non dei progetti quanto meno dei desiderata auspicati sin dal giorno seguente il risultato elettorale. Dall’editoriale con cui il direttore Ferruccio De Bortoli chiedeva a Giorgio Napolitano di candidarsi a un secondo settennato (ricevendo allora in risposta un cortese ma secco “no, grazie”) alla sponsorizzazione delle larghe intese come unica possibilità realistica per dare un governo al paese. (Detto fra parentesi, il risultato presidenziale e governativo, oltre al consolidamento del ruolo di Banca Intesa e del suo presidente Giovanni Bazoli nel piano di ricapitalizzazione di Rcs, torna a far crescere le azioni di De Bortoli per la permanenza alla guida del quotidiano di via Solferino).
E la giustizia?
Un accenno di resipiscenza potrebbe venire anche dal mondo della giustizia. Enrico Letta nel suo discorso programmatico ne ha sottolineato l’importanza soprattutto in sede civile, segnalando come la certezza del diritto e della sua veloce applicazione siano un volano indispensabile per l’economia, per le imprese e per attirare gli investimenti esteri. Ma ci sono anche altri segnali – lasciando stare il caso Berlusconi e dei suoi processi che realmente costituiscono un unicum sul quale ogni previsione è inutile –, come la distruzione delle intercettazioni Napolitano-Mancino che finalmente dà esec uzione a una decisione che ha coinvolto anche la Corte costituzionale, o il ritrovato coraggio del Csm nell’applicare norme che sembravano inapplicabili nei confronti di certi magistrati, come finalmente dimostrato di fronte alle disinvolture deontologiche del pm Antonio Ingroia, il quale se vorrà restare magistrato dovrà accettare di esercitare il suo ruolo di tutore della legge ad Aosta. Dura lex sed lex.
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