Secondo quanto scritto da Giuliano Ferrara nei giorni in cui scoppiava il caso Mitrokhin, i giornalisti hanno uno “speciale, strano, tortuoso, ingiustificabile, disprezzabile diritto allo spionaggio”. Ovvero: sono pagati per informare e dare notizie, ma dove e da chi, soprattutto in piazze difficili come poteva essere la Mosca in epoca sovietica, possono raccoglierle? Chi se non i “ben informati”, concludeva Ferrara, possono fornirle? Insomma, in certe situazioni, sarebbe impossibile fare bene il mestiere di giornalista senza compromettersi. All’uscita delle liste Mitrokhin, uno dei nomi che ha fatto più scalpore, è sicuramente quello di Jas Gawronski: corrispondente prima dalla Polonia per il Giorno (dal ’59 al ’62) e poi da Mosca per la Rai (dal ’79 all’81), buon amico di Gianni Agnelli, ex portavoce di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, attuale senatore ed eurodeputato di Forza Italia, è stato anche il primo giornalista a intervistare il Papa: “Lo conoscevo dai tempi in cui era cardinale a Cracovia – ricorda a Tempi – e a favorire la nostra conoscenza influì anche la sua passione per la figura di mio zio, Pier Giorgio Frassati che poi, infatti, da Papa avrebbe beatificato”. Insomma, non precisamente il profilo della spia del Kgb che ci si aspetterebbe.
“Vede, su cento persone che incontravi a Mosca in quegli anni, diciamo che una o due magari evitavano di raccontare a chi di dovere i contenuti della conversazione, novanta andavano a riferire tutto perché, di fatto, costrette, e forse sei o sette erano professionisti pagati per raccogliere informazioni. Anzi, in tanti anni ricordo solo una persona per cui avrei potuto mettere la mano sul fuoco che finito di parlare con me non sarebbe andata a riferire… I miei stessi collaboratori, l’autista, l’operatore o il tecnico del suono, quando alle cinque o alle sei uscivano dell’ufficio, senza, ovviamente, dirmelo apertamente mi lasciavano intendere che si sarebbero recati a fare il quotidiano rapporto su quanto avvenuto nella giornata. Certo non me la sentirei di definire, questi poveretti, delle spie. Voglio dire che la maggioranza dei cittadini sovietici che avevano contatti con gli stranieri diventavano informatori per necessità”.
D’altra parte un giornalista, per poter informare deve a sua volta informarsi e in un paese come l’Urss accedere e verificare le fonti non deve essere facile…
Sono arrivato a Mosca dopo 11 anni da corrispondente a New York: due esperienze opposte perché la Grande Mela è la città dove è più semplice svolgere l’attività di giornalista, Mosca dove è più complicato proprio perché è sempre difficile capire se una notizia è vera o una bufala clamorosa. A parte le fonti ufficiali, in Urss esistevano fonti ufficiose tutte da verificare perché una delle tattiche di questi informatori consisteva nello screditare il giornalista facendogli pubblicare presunte notizie puntualmente smentite nell’arco di due giorni. Del resto era indispensabile il contatto con fonti alternative, per esempio con il mondo dei dissidenti.
In definitiva era normale essere, in quanto giornalista della tv di Stato italiana, soggetto alle attenzioni dei servizi sovietici? Mi sarei stupito se non si fossero interessati al sottoscritto, anzi, forse anche preoccupato perché avrebbe voluto dire che non contavo proprio niente. In realtà, nessuno dei giornalisti citati in quelle liste è indicato come spia in servizio attivo: di alcuni c’è il nome in codice, di altri qualche dettaglio in più, ma del sottoscritto si dice solo che ero “coltivato” senza il minimo accenno ad alcun contatto.
Ha mai avuto delle esplicite proposte per, diciamo, collaborazioni extragiornalistiche? Una volta. In Polonia, all’inizio della mia carriera negli anni ’60 e si trattava di proposte molto chiare. Avevo 25 anni e si presentò un tizio dicendo di essere di non so quale ministero. Mi chiamarono due volte offrendomi di collaborare con loro. Al secondo rifiuto finì tutto.
Ha mai conosciuto o ha mai avuto il sospetto che qualche giornalista in particolare avesse invece accettato? Sì, dubbi ne ho avuto. Comunque credo ci siano varie forme di accettazione. Escluderei accordi stipulati e sottoscritti a tavolino con stipendi definiti, ma che esistesse una zona d’ombra con giornalisti che cambiavano i dollari al mercato nero guadagnandoci sopra 10-15 volte senza venir denunciati perché poi magari evitavano di occuparsi di problemi scottanti… C’è da dire che molti giornalisti erano anche simpatizzanti del regime, credevano davvero che l’Urss potesse diventare il paradiso e certe cronache erano dettate, più che altro, da simpatie politiche. Insomma giornalisti stipendiati non direi, ma accomodanti e accomodati ce n’erano.
L’Osservatore Romano nei giorni scorsi ha denunciato il tentativo di insabbiare il caso Mitrokhin. Lei cosa ne pensa? Penso che, finché i nomi non erano circolati in maniera incontrollata, sarebbe stato più saggio se le liste, come successo in altri paesi quali la Francia o la Gran Bretagna, non fossero mai state divulgate. Una volta partito il tam tam sui possibili nomi delle liste, molti dei quali poi nemmeno presenti, era doveroso pubblicarle per evitare coinvolgimenti di persone del tutto estranee alla vicenda.
Al di là della sua vicenda personale, quindi, lei si è fatto un giudizio complessivamente negativo del dossier Mitrokhin…
Certamente il dossier contiene qualche indicazione, ma non è possibile assumere in blocco schede elaborate da dei servizi segreti. È logico che quelle rivelazioni siano spesso il frutto di esagerazioni e gonfiature di funzionari preoccupati di far bella figura con i propri superiori per cui semplici contatti estemporanei vengono presentate come collaborazioni stabili o la conversazione su quanto pubblicato dai giornali italiani come notizia riservata. Semmai il dossier doveva essere utilizzato come base per ulteriori indagini su eventuali ipotesi di reato – e, piuttosto, è sospetto che più di un governo l’abbia tenuto nel cassetto senza avviare alcuna verifica -, certo non si può assumere Mitrokhin come fonte certa.
Ora è favorevole all’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta? L’importante è che sia una commissione d’inchiesta vera e non una di quelle istituzioni parlamentari che si trascinano a lungo senza fare chiarezza. In verità, conoscendo il mio paese escludo che si farà chiarezza in tempi decenti: si chiarirà tutto tra qualche anno quando non interesserà più a nessuno.