San Suu Kyi, perseguitata dal regime e abbandonata dall’Occidente
Si trova in carcere per possesso illegale di walkie-talkie. Ma anche per corruzione, errata gestione della pandemia, frode elettorale e molte altre accuse che la terranno in cella per almeno ventisei anni. Lei è Aung San Suu Kyi, la ‘Lady’ del popolo birmano deposta da un colpo di stato militare il 1° febbraio del 2021. Condannata dalla giunta militare in un processo farsa mai riconosciuto dalla comunità internazionale, la Premio Nobel per la pace si è vista nei giorni scorsi comminare ulteriori tre anni di pena da scontare nella malfamata galera della capitale Naypyidaw.
Sono lontani i giorni in cui la folla per strada la acclamava lanciandole corone di fiori e il Paese sognava una nuova democrazia. Il processo di democratizzazione che lei aveva avviato con fatica a partire dal 2011 si è infranto sotto i colpi di proiettile dell’esercito e dopo alcune settimane di proteste e contestazioni contro il golpe, il popolo si è rassegnato nuovamente.
La memoria del padre, il sogno di una vera democrazia
Chi è questa donna dal piglio di ferro, il viso altero, che ha cambiato la politica birmana da trent’anni a questa parte? Nata nel 1945 a Yangon, è la figlia di Aung Sun, eroe della patria per aver traghettato il Paese verso l’indipendenza dalla Gran Bretagna. L’uomo morì assassinato pochi mesi prima di vedere il suo sogno coronato. La moglie, che negli anni Sessanta sarebbe diventata ambasciatrice in India, si trasferì a New Delhi con i figli ed è in quegli anni che la Birmania venne sconvolta da un colpo di stato che impedirà alla famiglia di rientrare nel Paese per quasi trent’anni.
Aung San Suu Kyi cresce, si trasferisce nel Regno Unito, si laurea ad Oxford, finisce a lavorare per l’ONU a New York dove si sposa e cresce due figli. Sul finire degli anni Ottanta la madre – che nel frattempo era rientrata in Myanmar – si ammala gravemente e così corre al suo capezzale. Si ritrova catapultata in un mondo che non riconosce: povertà e miseria, malattie, sporcizia, per le strade le proteste di studenti e operai contro il regime del generale Ne Win (colui che aveva ordito il golpe del ’62 ed era rimasto in carica fino ad allora) vengono represse nel sangue. «Non avevo mai smesso di amare il mio Paese, l’ho sempre seguito da vicino ed era vivo in me il ricordo dei sacrifici di mio padre e di mia madre. Sentii che dovevo fare qualcosa, dovevo tornare», dirà in una intervista resa alla NZZ.
Il Nobel per la Pace
Aderisce al movimento pro-democrazia, partecipa ai primi incontri clandestini e ben presto si ritrova a guidare la Lega nazionale per la democrazia. È il 1988. Nel mondo si parla di Ghandi, Martin Luther King, Mandela, leader come Walesa infiammano i cantieri navali di Danzica e lei si ispira a loro. Diventa così la leader dei dissidenti, li guida in una lotta non violenta tanto da guadagnarsi nel 1991 il Nobel per la Pace mentre è agli arresti (resterà prigioniera per 15 anni) perché considerata una sovversiva dal regime.
Uno degli episodi più devastanti di quegli anni è stato raccontato dal Post. «Risale al 1999, quando a suo marito Michael Aris, che si trovava nel Regno Unito, fu diagnosticato un tumore in fase terminale. Il regime impedì ad Aris di andare in Myanmar per visitare Suu Kyi, ma si offrì di liberare la dissidente affinché potesse raggiungere suo marito a Oxford. Lei, sapendo che non sarebbe più stata in grado di tornare in Myanmar una volta uscita dal Paese, si rifiutò. Aris morì pochi mesi dopo».
Scarcerata nel 2010, torna a capo dell’opposizione e guida il Paese verso le libere elezioni del 2011, vinte dal suo partito (lei non può diventare presidente perché una clausola della Costituzione voluta dai militari impedisce di ricoprire la carica a chi ha sposato un cittadino straniero).
San Suu Kyi e la strada del compromesso
Negli ultimi 12 anni il Paese ha fatto qualche passo avanti ma la transizione verso una completa democrazia non è mai facile, né veloce. Non si cambiano impostazioni culturali e rigidità politiche in poco tempo. Così la sua leadership ha cominciato a traballare. È stata accusata di dare troppo potere alla giunta militare (la stessa, si noti bene, che l’ha incarcerata a febbraio accusandola di incapacità di governo), di nascondere sotto il tappeto i conflitti etnici nel Paese e di essere connivente se non tollerante con la repressione della minoranza musulmana dei Rohingya. Minoranza sicuramente perseguitata, ma che ha espresso un movimento armato (oggi conta circa cinquemila guerriglieri) che non ha lesinato su attentati e attacchi negli anni passati.
Nessuno nega queste criticità, sia chiaro, ma la strada cercata da San Suu Kyi è stata quella del compromesso, della non rottura per evitare che in Myanmar scoppiasse una nuova guerra civile. Questo ha comportato passi falsi? Sicuramente. Ma la gogna che ne è seguita – con tanti media occidentali passati dall’osannarla al denigrarla con la bava alla bocca – non rende giustizia alla vita di una donna che per come ha potuto, ha tentato di guidare il suo Paese verso un futuro migliore. Non ci è riuscita, forse, ma ci ha provato e per farlo ha pagato (e sta pagando) un conto salato.
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