Salman vuole la guerra in Libano, ma tutti si tirano indietro
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Il principe ereditario Mohammed bin Salman desidera con tutte le sue forze una bella guerra civile internazionalizzata in Libano sulla falsariga di quella tuttora in corso in Siria, o in alternativa un massiccio intervento militare israeliano in territorio libanese, ma fino ad ora ha ottenuto l’esatto contrario di quello che si prefiggeva: gli attori politici libanesi, che coincidono con le principali entità religiose del paese, anziché sbranarsi tra di loro stanno dando un raro esempio di unità nazionale e di senso di responsabilità. Perché quello che è successo a Rafic Hariri, primo ministro musulmano sunnita del multireligioso Libano, ha ferito l’orgoglio del tormentato spirito nazionale libanese e provocato un sussulto di dignità.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Non succedeva neanche nei paesi satelliti dell’Unione Sovietica che un capo di governo si recasse in visita alla casa madre ideologica, e da lì annunciasse in tivù le sue dimissioni senza poi fare ritorno in patria, dando la chiara sensazione di essere stato posto agli arresti domiciliari in terra straniera. Invece è successo nel mondo arabo del 2017: il 3 novembre scorso Rafic Hariri è partito alla volta di Riyadh, invitato a conferire con le massime autorità dell’Arabia Saudita, e il giorno dopo con volto pallidissimo e tratti tirati da lì ha annunciato dagli schermi di una tivù le sue dimissioni, presentate come forma estrema di protesta e di boicottaggio contro il partito Hezbollah, componente della stessa coalizione di governo da lui presieduta, e contro la potenza straniera che ne è lo sponsor, cioè l’Iran. Entrambi accusati di danneggiare le cause dei popoli arabi e di condurre politiche espansioniste e destabilizzatrici in tutta la regione. La tensione è immediatamente salita perché due giorni dopo le autorità saudite hanno dichiarato di considerarsi in stato di guerra con il Libano e con l’Iran a causa di un missile in provenienza dallo Yemen abbattuto prima che colpisse l’aeroporto di Riyadh. La responsabilità dell’attacco è stata attribuita a consiglieri iraniani ed Hezbollah che assisterebbero i guerriglieri yemeniti houthi, nemici dell’Arabia Saudita. Il 9 novembre tutti i cittadini sauditi sono stati invitati a lasciare il Libano, come se un’azione militare di grande portata fosse imminente. Però non è successo niente, mentre il mistero sulla sorte di Hariri si infittiva. Il presidente libanese Michel Aoun comunicava che solo col ritorno dell’esponente politico in patria avrebbe riconosciuto come legali le dimissioni, presentate in modo assolutamente irrituale e offensivo per la sovranità del Libano.
Domenica, dopo otto giorni di silenzio, in un’intervista televisiva da Riyadh Hariri ha respinto le voci che lo vogliono prigioniero dei sauditi e ha annunciato il suo imminente ritorno a Beirut per formalizzare l’atto di dimissioni. La forma però non potrà cancellare la sostanza degli eventi, che evidenziano la condizione di sovranità limitata in cui il Libano si trova dal 1991, cioè dalla fine della terribile guerra civile che per 16 anni, a partire dal 1975, dilaniò il paese e che si concluse col definitivo tramonto dell’egemonia politica della componente cristiana, che vigeva dai giorni dell’indipendenza, e con la messa sotto tutela araba del paese. Fino al 2005 questa tutela l’ha esercitata la Siria, dopodiché Arabia Saudita e Iran hanno scatenato una competizione per accaparrarsi il controllo del paese, la prima appoggiando il partito della famiglia Hariri (Movimento Futuro, sunniti), i cui membri hanno anche la cittadinanza saudita, la seconda finanziando e armando il partito Hezbollah, attorno a cui si raccoglie la componente sciita della popolazione (34 per cento di tutti i libanesi).
Il principe Salman vuole mettere fine all’influenza di Hezbollah e del suo sponsor iraniano in Libano per vendicarsi dei loro successi in Siria, Iraq e Yemen. La sopravvivenza del regime di Bashar el Assad a Damasco, la cacciata dell’Isis dall’Iraq, il fallimento della campagna militare a guida saudita contro gli houthi nello Yemen possono essere ricondotti in buona parte a interventi militari mirati di Hezbollah e di corpi speciali iraniani. La retorica anti-iraniana e filo-saudita dell’amministrazione Trump insieme alle ripetute minacce del premier israeliano Netanyahu di scatenare una guerra preventiva per arrestare il riarmo di Hezbollah hanno convinto Salman che sia venuto il momento di sostituire il troppo morbido Rafic –che governa in coalizione con Hezbollah e aveva ricevuto un alto esponente iraniano il giorno prima di essere convocato a Riyadh- con altri esponenti della famiglia Hariri più manovrabili e disposti ad andare allo scontro frontale con Tehran e i suoi alleati libanesi. Finora il bellicista disegno saudita però non ha trovato appoggi concreti: dal Libano dirigenti e base del partito Movimento Futuro protestano per quelle che considerano le dimissioni forzate di Rafic Hariri, e fino a questo momento nessun membro della famiglia si è assunto la responsabilità di prendere il suo posto. Gli Usa attraverso il segretario di Stato Rex Tillerson hanno virato di 180 gradi, ammonendo che il Libano non deve essere usato da nessuno per condurre guerre per procura e che Rafic Hariri è «un forte partner degli Stati Uniti». Israele nicchia a livello di governo, mentre gli specialisti di questioni militari escludono che il paese stia per entrare in guerra col Libano, e infatti non ci sono segni di mobilitazione. «Nella regione c’è chi desidera che Israele combatta una guerra saudita fino all’ultimo israeliano. Non c’è interesse a farlo», commenta Ofer Zalzberg, analista della sede israeliana di International Crisis Group. Secondo gli osservatori, nonostante i ricorrenti bombardamenti dei caccia israeliani contro convogli di armi che attraversano la Siria per rifornire gli arsenali di Hezbollah in Libano, il partito armato sciita dispone di 120 mila razzi e missili, in parte a media gittata, che causerebbero danni molto seri alle infrastrutture israeliane –oltre che molte vittime civili- nel caso di un bis della guerra del 2006.
Per quanto i segnali siano sufficientemente rassicuranti, al momento non è possibile escludere che i principali attori regionali stiano preparando un’altra guerra mediorientale, che stavolta avrebbe il suo epicentro in Libano, ma una cosa è certa: i libanesi sembrano intenzionati a fare tutto il possibile per scongiurarla.
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