Romney ha perso, ma i repubblicani non si sentono sconfitti. «È solo questione di tempo»
Da Washington, DC. I Wednesday Meeting organizzati dal think tank conservatore Americans for Tax Reform sono un’imprescindibile momento di brainstorming e aggiornamento per la galassia conservatrice di Washington: lobbisti, esponenti di think tank, deputati, politici, giornalisti e chiunque sia un portatore di interesse in questo ambito, sono invitati a intervenire per aggiornamenti, scambi di idee, programmazione. Il tutto si svolge off the record: vietato prendere appunti, registrare e fare foto.
Tempi ha chiesto a Grover Norquist, battagliero fondatore e presidente del think tank conservatore, nonché ideatore e conduttore di questi importanti appuntamenti, di commentare a caldo i risultati elettorali il giorno dopo la sconfitta di Mitt Romney. E l’intervistatore italiano che si aspetta un lungo lamento disfattista, viene subito preso in contropiede dalla lettura propositiva e costruttiva data da Norquist ai risultati.
Signor Norquist, Mitt Romney ha perso perché era troppo a favore del libero mercato o perché non lo è stato abbastanza?
In realtà i risultati mostrano diversi vantaggi per i Repubblicani e che le proposte repubblicane sono state bene accolte dagli elettori: Romney ha perso con soli due punti percentuali di differenza rispetto a Obama (48 a 50) e i Repubblicani hanno mantenuto la maggioranza alla Camera. Dato che i Repubblicani hanno basato la campagna elettorale sulla riforma di tutti i privilegi che generano deficit di bilancio (welfare e pensioni) e che alla Camera hanno votato compatti per queste riforme, ciò significa che se gli americani davvero non volessero le riforme liberali e la riforma fiscale (ricordiamo che le tasse non sono aumentate negli ultimi anni) avrebbero sconfitto i repubblicani alla Camera, e questo non è accaduto. Inoltre Obama ha condotto la sua campagna elettorale basandola su di una vera e propria menzogna, perché ha accusato Romney di volere alzare le tasse per la classe media sostenendo che al contrario lui non lo avrebbe fatto e si sarebbe occupato di ridurre il debito pubblico. Invece a rielezione avvenuta ha subito annunciato di volere creare una nuova tassa nel settore energetico, una specie di carbon tax, affermando di farlo contro il global warming, quando invece è interessato solo a battere cassa. Quindi è difficile sostenere che le persone vogliono il socialismo se Obama ha condotto la campagna elettorale promettendo politiche non socialiste e accusi l’avversario di volere alzare le tasse.
Crede che i risultati siano segno di una crisi all’interno del partito repubblicano e di una spaccatura tra le sue diverse anime: i conservatori e i libertari?
Si tratta di qualcos’altro: la vera differenza è fra quelli che sanno che i cambiamenti in politica richiedono molto tempo, che riformare il welfare state e la spesa pubblica in generale, richiede tempi estremamente lunghi e quelli che invece puntano i piedi e vogliono che le riforme siano immediate. La stessa proposta di riforma del budget portata avanti da Paul Ryan che mira a ridurre la spesa pubblica portandola dal 24% al 16% del Pil dovrebbe ripagare il debito pubblico, ma ci vorranno almeno 40 anni perché questo accada.
Mentre quelli che vogliono che le riforme accadono dall’oggi al domani non si rendono conto che è praticamente impossibile farlo e quindi sono come i bambini che puntano i piedi e urlano. Se Romney fosse stato eletto e il Senato fosse a maggioranza repubblicana, il piano di Ryan sarebbe passato, ora dovremo aspettare 4 anni per un altro presidente e dai 2 ai 4 anni per un Senato dalla nostra parte, quindi ci vuole tempo.
Il fatto che il Senato sia rimasto in mano democratica, anche se con una maggioranza ridotta, è un problema?
No, la situazione è identica a quella del 2010, e potremo continuare a fare progressi se i Repubblicani e i sostenitori del governo minimo capiranno la loro grande forza: il controllo della Camera che per la politica interna conta molto di più della Presidenza. Perché ogni singolo dollaro di spesa voluta dal Presidente deve essere approvato dalla Camera e quindi sono i Repubblicani ad avere il potere. La stessa cosa accade a livello di singoli stati dove i Repubblicani controllano molte legislazioni statali e il cambiamento del mondo può iniziare da lì.
Quali sono le prospettive?
Prevedo passi avanti e passi indietro e alcuni momenti di stallo. Ma la lotta per la riduzione delle tasse continuerà per altri due anni. Questo significa però che i veri cambiamenti potranno essere implementati con le presidenziali del 2016, perché allora sarà molto probabile che vinca un repubblicano, con un Congresso a maggioranza repubblicana.
Cosa ne pensa del voto degli immigrati e del rapporto che con loro ha il partito repubblicano?
È senz’altro vero che alcune minoranze, ispanici e asiatici, sono state molto scontente dei toni duri usati da alcuni repubblicani su questioni legate all’immigrazione e li vedono quindi come pericolosi, minacciosi e aggressivi. Certo, è cosa comune lamentarsi degli immigrati più recenti sostenendo che i “migliori” sono quelli di due generazioni prima, ma ce la faremo a superare questo ricorrente pregiudizio. Il partito repubblicano ha comunque proposto un candidato alla presidenza che è stato il più favorevole all’immigrazione dai tempi di Reagan e il chairman repubblicano più a favore dell’immigrazione viene dal Texas. In ogni caso, l’immigrazione è la grande forza dell’America e i repubblicani devono sicuramente mettere a tacere le voci contro l’immigrazione perché si tratta di ignoranti che rischiano di ritrovarsi in pessima compagnia: quella dei fanatici ambientalisti radicali, che sono contro le persone, e gli eugenetisti a favore della crescita zero. Noi siamo davvero bravi con l’immigrazione ed è per questo che continuiamo a crescere, al contrario della Cina e dell’Europa.
Quali sono gli scenari di politica estera e il ruolo dell’America nel mondo?
Credo che la posizione di Ronald Reagan, essere forti e non impegnarsi in troppe guerre, non mollare e sconfiggere i nemici continuando a crescere economicamente sia la strada da seguire, come ha dimostrato l’esperienza con l’Unione Sovietica.
La politica di Bush di mandare truppe all’estero per trasformare paesi lontani nel Kansas non ha mai funzionato, né ai tempi di Roosevelt con le filippine, né più di recente con l’Iran e l’Afghanistan: è stato troppo costoso in termini economici e di vite umane e ha pagato troppo poco in termini di ritorni effettivi. Gli Stati Uniti sono infatti oggi più deboli di prima. Si può discutere circa la decisione di sconfiggere i talebani e i baathisti, ma sconfiggerli e decidere di restare, ha reso l’America più debole e la stessa cosa potrebbe accadere con tutta l’area mediorientale.
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