Per queste poche parole sta scontando una spaventosa condanna a morte: «Le reazioni suscitate dall’analisi di Benedetto XVI sull’islam e la violenza fanno parte dell’obiettivo che lo stesso islam si pone: spazzare via la cosa più preziosa che possiede l’Occidente e che non esiste in alcun paese musulmano, la libertà di pensiero e di espressione». Prima di pubblicare l’editoriale sul Figaro, il 19 settembre 2006, Robert Redeker era solo un intellettuale cresciuto nella rivista di Jean-Paul Sartre, Les temps modernes, un professore di filosofia figlio di due contadini di origine tedesca. Dopo l’articolo, Redeker è diventato il simbolo della guerra inedita che si combatte nella cultura europea. Il titolo a sei colonne del Depeche du midi, “La fatwa e il filosofo”, cela come uno scrigno il destino dell’Europa. Redeker aveva scritto che «l’islam sta cercando di obbligare l’Europa ad adeguarsi alla sua visione dell’uomo», che «come già accadde con il comunismo, l’Occidente è ora sotto sorveglianza ideologica», che «ora la scomunica è per l’islamofobia, come lo era in passato per l’anticomunismo» e che «anziché eliminare la violenza arcaica neutralizzandola, sulla scia dell’ebraismo e del cristianesimo (l’ebraismo inizia con il rifiuto del sacrificio umano, che è l’ingresso nella civiltà, mentre il cristianesimo trasformerà il sacrificio in eucarestia), l’islam le crea un bel nido per crescere al caldo».
È bastato che lo sceicco Yusuf al Qaradawi, capo spirituale dei Fratelli Musulmani, lo indicasse su al Jazeera come «l’islamofobo del momento», perché Redeker venisse colpito da una serie di minacce di morte, diffuse via internet con tanto di indirizzo di casa, numero di telefono, foto segnaletiche e mappe dettagliate per raggiungere l’abitazione. E ucciderlo. Il giorno dell’uscita del suo articolo, il Figaro venne bandito nel Maghreb. La fatwa non aveva niente di virtuale. Ai musulmani di Francia era stato chiesto di fargli fare la fine del regista olandese Theo van Gogh. Il mandato di morte sul sito qaedista al Hesbah recitava: «Ecco il maiale che ha criticato il profeta Maometto». E poi l’invito a seguire l’esempio del “leone dei Paesi Bassi”, Mohammed Bouyeri. «Che Allah invii un leone a decapitarlo». Le minacce hanno colpito anche i due anziani genitori e suo padre non ha retto alla caccia all’uomo scatenata contro il figlio. È morto nell’inverno scorso. Quando appare in pubblico, Redeker è guardato a vista dagli agenti segreti. Ha dovuto vendere casa, cercarne un’altra, vivere al buio per settimane, usare pseudonomi, fare lunghi viaggi in auto per le più piccole azioni quotidiane, seppellire il padre nel più totale anonimato e accettare che il matrimonio della figlia lo organizzasse la polizia. Se non bastasse, ha incassato come un appestato il biasimo dell’intellighenzia francese, salvo gli eroici appelli di André Glucksmann, Claude Lanzmann, Alain Finkielkraut e Pascal Bruckner. Come scrive Catherine Kintzler, Redeker è stato vittima di un’autentica «inquisizione islamoprogressista».
L’audace Sarkozy e la pavida sinistra
Il filosofo francese apre quest’intervista a Tempi con l’analisi della rivoluzione sarkozista. «Nicolas Sarkozy ha messo fine, per la Francia, al XX secolo politico. Come se, in soli due mesi, un vecchio mondo fosse stato spazzato via. L’errore della sinistra è di essere rimasta, a differenza di Sarkozy, prigioniera di quel vecchio mondo e dei suoi discorsi. La destra passa per essere audace, è per il cambiamento, le riforme, mentre la sinistra, prima considerata “progressista”, si è attirata la reputazione di conservatorismo. Mai la sinistra avrebbe messo alla testa di un ministero regio, quello della Giustizia, una donna proveniente dall’immigrazione, Rachida Dati. Mai avrebbe accolto nell’ambito del governo Fadela Amara. Avrebbe detto: “È troppo presto per questo, gli spiriti non sono maturi, i francesi non comprenderebbero, queste nomine sarebbero uno straccio rosso agitato dinanzi al Fronte nazionale”. Sarkozy, invece, ha soffocato senza speranza di rinascita il Fronte nazionale e ha integrato nel governo molte personalità di origini non europee».
La Francia ha scelto Sarkozy, spiega Redeker, perché lui ha saputo esprimere il problema politico fondamentale, l’identità nazionale. «Il goscismo culturale ha in odio il sentimento nazionale, eccetto quando è palestinese e, in una misura inferiore, basco o tibetano. Ma una classe politica si definisce umanamente entro i confini della sua appartenenza e geograficamente dalle sue frontiere. Esiste affermando la sua identità. Nell’ambito della società quest’identità vive sotto forma di sensazione. Lungi dall’essere soltanto un concetto filosofico, l’identità nazionale è una sensazione politica. La sinistra non osa più capirlo: non è soltanto un affare di carte d’identità, la cittadinanza è affare di ragione, affare di carne. La sinistra non tiene conto più di questa dimensione dell’esistenza collettiva, eppure è attraverso questa sensazione quasi carnale dell’identità nazionale che le classi popolari, il “popolino”, ha coscienza della propria dignità, di appartenere insieme con i più favoriti dalla sorte, i più ricchi e i più dotati, a qualcosa che li supera: la nazione. La sensazione dell’identità nazionale è agli occhi dei più svantaggiati il luogo dell’uguaglianza. Svolge nell’immaginario contemporaneo lo stesso ruolo che svolgeva la morte nell’immaginario del secolo scorso: è, per il popolo, l’istanza che avvicina, che salda gli uomini e le classi in uno stesso destino».
La laicità che ammala la Francia
Per Redeker il gap tra la sinistra e il “popolino” ha anche una dimensione linguistica. «Per gli elettori la lingua della sinistra è diventata straniera, senza relazione con ciò che essi vivono ogni giorno. Le preoccupazioni considerate essenziali dagli elettori delle classi popolari, l’identità e la sicurezza, per la sinistra sono tabù. Un’altra inversione simbolica, di grande portata storica è quella segnalata da Philippe Muray: la sinistra ormai è benpensante. I cittadini non percepiscono nelle proposte della sinistra una risposta credibile alla nuova età del capitalismo».
Il caso Redeker ha messo in luce una “malattia della laicità”. «In Francia la laicità è allo stesso tempo una struttura istituzionale e un universo militante. A favore della laicità si battono associazioni influenti, i cui militanti, numerosi e molto attivi, cercano di fare arretrare le religioni. Il loro radicamento nell’ambiente educativo, presso i professori, è molto forte. La laicità è nel cuore dell’identità professionale e personale degli insegnanti. È il loro cuore. Però, se sono molto virulenti contro il cattolicesimo, i militanti della laicità rimangono comprensivi con l’islam. Ad esempio, si sono rivoltati quando, l’anno scorso, è stata dedicata una piazza a Giovanni Paolo II, ma non si sollevano contro la costruzione delle moschee. Se fossi stato minacciato da cattolici, ci sarebbero state grandi manifestazioni nelle strade per difendermi e denunciare il ritorno dell’Inquisizione. Ovunque si sarebbe protestato: “Salviamo la Repubblica dal nuovo clericalismo!”. Si sarebbe visto un dramma nazionale. La sinistra sarebbe stata alla testa di queste marce. Ma, visto che sono musulmani quelli che mi minacciano, simili manifestazioni non hanno avuto luogo. Nella retorica e nell’azione laicista, l’islam beneficia in Francia della clausola della religione favorita. Sarebbe oggi la fede degli oppressi, come ieri lo era il comunismo. Il vuoto lasciato dalla classe operaia, accentuato dalla nostalgia dei tempi felici, è riempito dalle masse musulmane. I progressisti e pacifisti occidentali, anti-israeliani e antiamericani, hanno adottato un’escatologia di sostituzione, quella dell’islam».
Ho seppellito mio padre come un ladro
Oggi Redeker dice di essere vivo, ma fuori dalla vita. «Sono obbligato a vivere come un profugo politico nel mio paese. Vivo sotto protezione permanente della polizia, come se fossi un bandito. Ho perso la libertà della vita quotidiana. La mia esistenza è quella di un clandestino. Ci sono molte cose che non posso fare più, molti posti dove non posso andare più. Devo fare 40 chilometri ogni giorno per ritirare la corrispondenza in una cassetta postale. Dal parrucchiere o dal medico non posso restare in una sala d’attesa. I capelli me li taglia un’amica. I miei corsi sono stati eliminati da tutte le istituzioni in cui insegno, per motivi di sicurezza. La cosa più penosa è che ho dovuto seppellire mio padre come un ladro, senza pubblicare l’annuncio della sua morte. Ho anche dovuto comperare una nuova casa, ma trovare acquirenti per la prima residenza era difficile, visto che il mio nome era noto. Ciò ha moltiplicato le spese. Lanzmann e Glucksmann, veri amici e miei sostegni infaticabili, avevano lanciato una colletta che mi ha aiutato per le spese del notaio. Dopo un mese, però, il conto è stato chiuso: i dipendenti della banca erano stati minacciati. È un ritorno all’oscurantismo. Come se, improvvisamente, la Francia ritornasse molti secoli indietro, alle ore più oscure della sua storia, quelle della dittatura religiosa sulla società. La debolezza del sostegno che ho ricevuto, la codardia collettiva dinanzi alle minacce, prova che la libertà non è, in Francia, un bene definitivamente acquisito. La libertà si perde se non la si difende». La fatwa e l’esilio coatto nel paese di Voltaire per Redeker dimostrano due cose: «Che il ritorno della tirannia è una possibilità da non escludere, e che il nuovo tiranno potrà contare sulla codardia collettiva. Al tempo delle guerre di religione, un contemporaneo di Montaigne, Etienne del Boétie, spiegò che la base della tirannia sta nel “vincolo volontario” della popolazione. La debolezza del sostegno che ho ottenuto è una manifestazione di questo vincolo volontario, è accettare che siano i fanatici religiosi a dettare legge».
Le minacce di morte si sono riversate su Redeker a causa della sua difesa della lezione di Benedetto XVI a Ratisbona. «C’è stato un linciaggio mediatico di Benedetto XVI impressionante», insiste. «Ma il discorso del Papa era di grande valore. L’Europa avrebbe dovuto riconoscersi nelle sue posizioni, invece lo ha abbandonato. Non era mai successo. È un cambiamento epocale. Il discorso di Ratisbona è stato un grande momento di teologia e di filosofia. Benedetto XVI è un grande spirito. Approfondisce la teoria e cerca di coniugarla con la pratica ecclesiale in modo più rigoroso. Si distacca anche dal pensiero cattolico del Dopoguerra centrandolo sull’essenziale. La forza di questo discorso risiede nella specificità del cristianesimo, mentre un ecumenismo facile e pigro lo annega in una religione universale molto vaga, che mescola tutte le religioni. L’idea del filosofo Marcel secondo la quale il cristianesimo è la religione che permette all’umanità di uscire dalla religione è un’idea molto forte. Implica due cose: da un lato che non è la religione dell’universale, dall’altro che non è solubile in una tiepida minestra multireligiosa. La religione struttura l’essere umano, nutre il suo immaginario, gli procura norme indispensabili all’esistenza. La sua opera è antropocreatrice: si trova all’origine dell’umanizzazione. La religione segna il passaggio dell’animale all’uomo. Nel suo aspetto politico, la religione costituisce la forza che tiene verticalmente gli uomini, lega ogni uomo alla sua società. È questa funzione antropologica e politica della religione che il laicismo si propone di annullare. Io invece sono nato e morirò cattolico. Anche quando mi affermavo ateo, la fede in Gesù continuava inconsciamente ad abitarmi. La fede è un movimento sempre ricominciato, un movimento perpetuo. Non somiglia all’amore?».
Rifondare l’illuminismo
Redeker è un cultore del motto di Paul Valery: «Bisogna provare a vivere». E lo ripete anche dal limbo in cui è costretto a vivere. «Trovo questa forza nella filosofia. “La filosofia è meditazione non della morte, ma della vita”, ha detto Spinoza. Trovo questa forza riflettendo su Nietzsche: dire sì alla vita, qualunque essa sia. È Amor Fati. Amare il proprio destino, qualunque esso sia. Non soltanto accettarlo, ma gradirlo. La resurrezione di Gesù è questa dichiarazione di vita». Oggi si consuma una grande guerra culturale fra coloro che amano la morte più della vita e coloro che amano la vita fino al punto di rischiare la propria. «Il pianeta intero è minacciato dalla tanatocrazia, di cui l’islamismo è soltanto un aspetto. “Viva la muerte” era il sinistro grido d’adesione dei fascisti spagnoli negli anni Trenta. Con il suo culto della morte, l’islamismo si inscrive nell’ispirazione fascista. Ma, naturalmente, questa cultura della morte straripa oltre l’islamismo. La nostra società contiene anche tendenze morbose: di-sumanizzandolo, la nostra società corre il pericolo di animalizzare l’uomo. È una forma di morte, una morte morbida. Sbarazzandosi di Dio, il mondo moderno è scivolato nella divinizzazione dell’uomo e verso la sua disumanizzazione. In altre parole, siamo alle prese con una doppia guerra contro la civiltà: una guerra violenta, l’islamismo, e una eutanasica, la disumanizzazione. La modernità evacua il tragico. Il fanatismo contemporaneo della trasperanza, della piena luce, uccide l’oscuro. Dobbiamo resistere alla tanatocrazia sostenendo due pilastri: la difesa senza concessione dei valori politici derivati dall’illuminismo e l’affermazione giudeo-cristiana della sacralità della vita».
Oggi il pensiero di Redeker, che da questo ricordo trae la forza necessaria per vincere la paura e la solitudine, va al nonno, Edouard Schönknecht. Quando i sicari nazisti delle S.A. gli ordinarono di esporre il ritratto di Hitler davanti ai suoi allievi, quell’uomo replicò: «C’è soltanto Dio sopra me».