Cinquant’anni «tra le pagine chiare e le pagine scure» di Rimmel

Di Valerio Pece
26 Gennaio 2025
Il disco di De Gregori che sembra un “Greatest hits” compie mezzo secolo di sognante memoria condivisa. Parla il poeta Alessandro Rivali
Francesco De Gregori (foto Ansa)
Francesco De Gregori (foto Ansa)

Nel gennaio del 1975, nello stesso anno e mese in cui Keith Jarrett si esibiva a Colonia registrando l’album jazz di “piano solo” più famoso al mondo (The Köln Concert), su un non meno influente fronte musicale, quello relativo al “canone italiano”, usciva Rimmel.

Il quarto lavoro in studio di Francesco De Gregori, rimasto in classifica per 60 settimane e capace di vendere mezzo milione di copie.

De Gregori e il “frammento luminoso”

Del sovvertimento semantico che il cantautore romano ha impresso alla forma canzone, del suo verseggiare da equilibrista, come anche della differenza tra poesia e canzone, si è scritto molto. Sulla questione il poeta e scrittore Alessandro Rivali, sentito da Tempi, offre un punto di vista saggiamente definitorio: «È una vita che De Gregori, umilmente, si schermisce davanti alla parola poeta. Può non esserlo in senso tecnico, certo, ma come Manzoni o Melville, se qualcuno è capace così mirabilmente di accendere i fari sul mistero della vita, poeta lo è di fatto».

Ma c’è di più. «La cosa affascinante dell’album Rimmel», ribadisce Rivali, «è la catena di immagini che si susseguono, spesso tutt’altro che sequenziali, ma esattamente in questo sta la loro bellezza. Mi sono formato con Ezra Pound, poeta credo lontanissimo da Francesco De Gregori, che nei suoi Cantos teorizzava proprio “il frammento luminoso”, cioè quel procedere per schegge luminescenti che sta poi sta al lettore mettere insieme e interpretare».

Francesco De Gregori festeggerà i 50 anni di Rimmel con un lungo tour che partirà il 31 ottobre da Bologna
Francesco De Gregori festeggerà i 50 anni di Rimmel con un lungo tour che partirà il 31 ottobre da Bologna

«La mascella dal cortile parlava» (o di un antifascismo pacato)

Che i complessivi ventinove minuti di Rimmel – un inno alla brevitas – accennino soltanto, suggeriscano senza chiudere, è un fatto. Come è altrettanto vero che le nove canzoni dell’album rimandino tutte, in un intreccio affascinante, alla storia personale di De Gregori e quella dell’Italia tutta intera. Le storie di ieri, per esempio – canzone uscita a distanza di un mese sia su Rimmel che su Volume 8 di De Andrè – è forse quella più politica e insieme apertamente autobiografica dell’album, sempre nel segno di quel mix di storia privata e pubblica che caratterizza lo storytelling del cantautore.

Per il direttore delle Edizioni Ares «Le storie di ieri è quasi un manifesto del Novecento, una lettura di tutto il dramma del secondo Novecento italiano, delle spaccature che lo hanno caratterizzato e soprattutto delle morti inutili. In questo senso “I cavalli a Salò sono morti di noia/ a giocare col nero perdi sempre” è un verso molto concreto. Ma è anche vero che guardando all’opera e alla biografia degregoriana nel suo complesso, dietro dobbiamo leggerci anche la storia dolente di suo zio, comandante della brigata Osoppo, trucidato a Porzûs dai partigiani comunisti».

Il brano parte con una sineddoche su Mussolini («la mascella dal cortile parlava»); prosegue esplicitando la diffidenza circa il nascente Movimento Sociale e lo stesso Almirante («E anche oggi è rimasta una scritta nera/ sopra il muro davanti casa mia/ dice che il movimento vincerà/ il gran capo ha la faccia serena,
la cravatta intonata alla camicia»); e si conclude con il rapporto tra un giovanissimo De Gregori e suo padre, cresciuto durante il fascismo tanto da avere «una storia comune/ condivisa dalla sua generazione». Giorgio De Gregori, bibliotecario arrivato ai vertici dell’Aib (l’Associazione delle Biblioteche Italiane) è descritto come un «ragazzo tranquillo», che «la mattina legge molti giornali», che è «convinto di avere delle idee» ma che ha un figlio con un punto di vista diverso. Quindi «una nave pirata».

Le storie di ieri nella versione cantata da Fabrizio De Andrè contenuta nell’album “Volume 8”

«Papà non preoccuparti, non c’entri»

Una presa di distanza politica, certo, ma sussurrata, discreta, finanche condita da qualche senso di colpa. A proposito del “lessico familiare” contenuto ne Le storie di ieri, racconterà al giornalista musicale Paolo Vites:

«Quando la sentì mio padre mi disse: “Ma io che c’entro?”. E io “Papà non preoccuparti, non c’entri”. Per dirti come in una canzone l’autobiografia sia importante fino a un certo punto. Non sempre quando uno dice “mio padre” si riferisce al padre anagrafico. Al mio comunque dispiacque un po’, anche perché la canzone […] la sentirono in molti e c’era gente che […] gli diceva: “Giorgio, non sapevo che tu fossi così di destra”. Alla fine dispiacque anche a me di averlo citato, o aver creato questo fraintendimento».

«De Gregori ha la misura della grazia»

La descrizione di un antifascismo per nulla muscolare, senza tragedie greche e sceneggiate napoletane (alla voce Maninelli-Scurati quella su certe “insopportabili” prove attoriali) dice molto della “misura” con cui il cantautore si è sempre mosso.

«De Gregori ha la misura della grazia», chiosa Rivali, «la sua è una poetica della gentilezza, del modo posato ma allo stesso modo profondo di dire le cose. Ecco perché nel suo caso parlo di elegia, perché i suoi brani hanno una delicatezza particolare, capace di toccare il cuore come la migliore poesia. Alla mitezza come forma espressiva va abbinata la sua corda sognante, propria dei poeti. Sarebbe interessante condurre uno studio sulla ricorrenza, nelle sue canzoni, della parola “sogno”. Anche nel brano citato, Le storie di ieri, il bambino “chiude gli occhi e comincia a sognare”. In Buonanotte fiorellino De Gregori annota che “per sognarti devo averti vicino/ e vicino non è ancora abbastanza”».

«Santa voglia di vivere e dolce venere di Rimmel» (un verso senza trucchi)

Autobiografia sì, ma sempre sublimata. Come scriveva Malcom Pagani sul Foglio, «che avesse un cappello da baseball o un copricapo a larghe falde, Francesco si è messo all’ombra. Al riparo dalle definizioni. Schermirsi era una necessità. Nascondersi un dovere». Sta di fatto che dopo un attacco di pianoforte leggermente country, la title track dell’album (nei live mai uguale a se stessa perché «se ogni volta che faccio Rimmel dovessi procedere al restauro di un tabernacolo […] sarebbe un falso ideologico») inizia con una congiunzione straniante. Che a sua volta trascina con sé la fine di una storia d’amore: «E qualcosa rimane/ tra le pagine chiare e le pagine scure». Poi, dopo carte da gioco, zingari, alibi, trucchi, colli di pelliccia e altre seducenti immagini cinematografiche, tutto termina con una foto che lei chiede a lui, quella «in cui tu sorridevi e non guardavi». E al sì detto «senza capire», il ventitreenne De Gregori si sente rispondere che quella foto «è tutto quel che hai di me». E allora, purtroppo, «è tutto quel che ho di te». Rimmel parla di un amore che si va spegnendo in una modalità rassegnata, fatale, minimalista, perciò assurda e straziante.

«Passaggi quali “Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo/ e la mia faccia sovrapporla a quella di chissà chi altro”», spiega Alessandro Rivali, «non hanno bisogno di filologi per mostrare la loro immediatezza». Per lo scrittore genovese «la canzone contiene poi dei versi “molati”, che hanno dentro una bellezza totalmente e propriamente letteraria. Penso a “Santa voglia di vivere/ e dolce Venere di Rimmel”, che al di là del gioco allitterante di “v”, è un verso da vero poeta, che potrebbe benissimo abitare in un canzoniere del Novecento».

Rimmel nella sua versione originale

Pezzi di vetro, la “rosicata” che diventa un capolavoro

Ancora un’autobiografia velata si ritrova nel brano più amato dai cultori del cantautore, Pezzi di vetro. Una canzone tanto criptata, allusiva, per Fossati «poeticamente vertiginosa», quanto banalmente ordinaria è la sua genesi. In un’intervista al Corriere del 2015 riportata nel colossale lavoro filologico di Enrico Deregibus (Francesco De Gregori. I testi. La storia delle canzoni, Giunti), il cantautore-poeta così parlava:

«Passeggiavo con la mia fidanzata di allora in piazza Navona. Tra i tanti artisti di strada c’era uno che mangiava il fuoco e camminava sui cocci di bottiglia a piedi nudi. Ad un certo punto la mia ragazza disse: “Però, che bel ragazzo che è quello”. Finisce qua la storia, fu semplicemente un momento di leggera toccatina di gelosia. Da lì nacque l’incipit di una canzone autobiografica».

Il racconto di quella che, all’ingrosso, De Gregori descrive come una “rosicata”, darà adito a una ridda di interpretazioni e a un’esegesi che dura da cinquant’anni. Il punto di vista è quello di un terzo che guarda una donna innamorarsi di un ragazzo anarchicamente libero, che pur giocando con la sua esistenza e col suo dolore è tutt’altro che un fenomeno da baraccone («niente a che vedere col circo/ né acrobata né mangiatore di fuoco»). È piuttosto un artista spavaldo, un «santo a piedi nudi» che «salta e vince sui vetri», che «spezza bottiglie e ride», perché sa che «ferirsi non è possibile/ morire meno che mai». È un simbolo di vitalità il cui irresistibile fascino è tutto giocato dentro la sua poco comune dinamica esperienziale: costui è totalmente padrone della sua esistenza («Lui risponde serio “È mia!”/ sottintende la vita»). E al suo ultimo tentativo di stupire («Quando dice: “È quattro giorni che ti amo!”»), la ragazza, in un finale di rara intensità, non può che deporre le armi: «E non hai capito ancora come mai/ gli hai lasciato in un minuto tutto quel che hai/ però stai bene dove stai».

«Un’elegia della mancanza. Ricorda Le occasioni di Montale»

Da poeta affermato (e premiato), Alessandro Rivali argomenta il tutto con illuminata cognizione di causa. «Pezzi di vetro», confida a Tempi, «come tutto il disco che la contiene, è nient’altro che un’elegia della mancanza. Un autore scrive sempre per qualcosa che manca, che sia un eden perduto, un amore finito, un padre scomparso… In questo senso le canzoni di Rimmel mi ricordano molto Le occasioni di Montale, un canzoniere tutto costruito sull’assenza».

E aggiunge: «Sappiamo che De Gregori è un grande lettore di letteratura americana, adora Cormac McCarthy, non sappiamo invece che rapporti abbia con Montale. Di certo, però, ama Dino Campana, a cui ha dedicato un brano, e come lui è poeticamente misterioso, in qualche modo reticente. Gianpiero Neri, il mio maestro in poesia, diceva che Campana è un punto di non ritorno del ‘900; che molti versi di De Gregori abbiano una derivazione onirica, propria di Dino Campana e dei suoi Canti Orfici, è qualcosa di significativo».

Francesco De Gregori e Checco Zalone. Il duo ha debuttato il 5 giugno scorso alle Terme di Caracalla a Roma (foto Ansa)
Francesco De Gregori e Checco Zalone. Il duo ha debuttato il 5 giugno scorso alle Terme di Caracalla a Roma (foto Ansa)

Pablo è un «collega», non un “compagno”

Oltre all’io schermato, un album uscito alla metà esatta degli anni Settanta non può non contenere echi di una coscienza di classe. In Pablo, brano ipnotico, l’io narrante è un emigrato italiano povero e orfano («Mio padre seppellito un anno fa/ nessuno più coltivare la vite»). L’amicizia con un «collega spagnolo» incline a tradire la moglie «con le donne, il vino e la Svizzera verde» si concluderà nel peggiore dei modi: in un incidente sul lavoro Pablo terminerà la sua vita in tutti i sensi precaria precipitando da un’impalcatura. Da lì il “coro” degli altri operai: «Hanno ammazzato Pablo e Pablo è vivo». Ma è nella scelta della parola “collega” che va indagata la genesi di quell’atteggiamento sfrontatamente apolitico che De Gregori, malgrado tutte le etichette subite, si è da tempo scrollato di dosso (e di cui Tempi ha parlato qui). Era l’anno 2000, e a Maria Lombardo, scrittrice e critica cinematografica, il cantautore romano rilasciava queste parole:

«La parola “compagno” […], per quanto allora andasse di moda, era ingombrante dentro quella canzone. L’avrebbe trasferita immediatamente nell’ambito delle canzoni di lotta […]. Perciò in Pablo si parla di collega spagnolo e non di compagno spagnolo. Ci ho ripensato a distanza di tempo e mi sono chiesto perché mi dava fastidio la parola “compagno”. È forse perché la canzone in questione vuole tratteggiare la figura di un signore che muore in quel modo, al di là delle ideologie. È un Malavoglia, Pablo, non ha né coscienza sociale né politica. È una vittima dell’ingiustizia del mondo, non è vittima di una controparte politica. Forse questo c’è in molte mie canzoni che riguardano “il sociale”, come si direbbe oggi. E forse questo ha generato anche, a suo tempo, incomprensioni e accuse di ambiguità. Quelle di cui parlo sono vittime del mondo».

De Gregori è Rimmel & Nobel

Nei tributi che in queste settimane la stampa ha dedicato a Rimmel, come un orologio svizzero è sempre tornata puntuale la vecchia e strabordante stroncatura di Giaime Pintor (De Gregori non è Nobel, è Rimmel), nella quale il figlio del fondatore del quotidiano Il manifesto rinfacciava al cantautore, tra molti affondi, «la presunzione di far poesia», un «canto degregoriano kitsch» e una zuccherosità da «baci Perugina». A distanza di 50 anni l’abbaglio è evidente. «Pintor bollò come sdolcinato ciò che non lo è affatto», così il direttore di Edizioni Ares. Che a Tempi precisa: «Un autore è grande quando riesce a trasmettere l’universale attraverso i dettagli. Un verso come “Ora un raggio di sole si è fermato/ proprio sopra il mio biglietto scaduto” avvicina De Gregori a Raymond Carver, scrittore che partendo dall’ordinario, dal quotidiano, costruiva splendide epifanie».

Il 31 ottobre, da Bologna, partirà il “Rimmel Tour”, prima nei teatri, poi nei Palasport di Roma e Milano e infine nei club. Ventisette date a loro modo “indispensabili” per vivificare memoria collettiva e santa mendicanza di un’Italia che «non sa dove andare/ comunque ci va».

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