Settimana scorsa, mia figlia mi ha chiesto: “Perché dobbiamo andare a Roma?”. Le ho risposto che ci vado perché voglio, innanzitutto, affermare e testimoniare un diritto: il diritto di essere libero di ricevere un’educazione, di vivere un’esperienza che mi permette di crescere come uomo e il diritto di educare i miei figli nel modo che ritengo più giusto per loro. Tutto ciò mi è particolarmente chiaro nella mia esperienza quotidiana di padre, nei confronti dei miei figli, e di datore di lavoro nei confronti delle persone, per lo più giovani, che lavorano con me. Perché non c’è niente di più facile nella vita quotidiana – e la famiglia e il lavoro sono l’ambito più quotidiana che esista – che dare per scontata l’esperienza comune che si vive e, nel tempo, maturare la pretesa che l’altro partecipi a chissà quale scopo. Oggi, a quarantatre anni, mi rendo conto che, invece, educarsi vuol dire aiutarsi ad affrontare la realtà riscoprendo i bisogni più veri e profondi, riscoprendo, cioè, la realtà per la verità che essa è. E questa è un’educazione continua, anzi, con il passare del tempo sempre più necessaria: solo così è possibile diventare padri nei confronti dei figli. Con mio figlio o mia figlia, infatti, non testimonio la verità della mia esperienza con un discorso, ma condividendo con loro la drammaticità di cercare di seguire la verità. E la stessa esperienza vale con i miei amici più giovani: è troppo facile durante la giornata limitarsi, a perseguire gli obiettivi e a chiedere a chi lavora con te di fare ciò che deve fare e basta; dimenticando chi è, che cosa desidera lui e che cosa desidero io e che senso ha il lavoro che facciamo insieme. È solo una compagnia umana che ti ridesta un orizzonte, ti fa riscoprire le domande, e ti ricorda ciò a cui sei educato, e quindi, educa anche l’altro. Per questo vado a Roma. Per difendere questa libertà: di costruire opere formative, sociali, imprenditoriali che possano, in Italia, affermare, non in teoria, ma in concreto la libertà all’educazione.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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Emanuele Boffi