Quanto sei più bella e più grande, Roma, del tuo male capitale
Roma, dicembre. Sul terrazzo di questo vecchio palazzo a Prati stanotte un cielo basso di nuvole, e rossastro delle luci della città. Il vento umido sa quasi di mare; i gabbiani se ne fanno portare, lenti, e sopra ai tetti stridono la loro acre risata. Attorno a me, quassù, nessuno, solo una foresta di antenne alte e secche, e comignoli, e rugginosi omini segnavento: che in questa oscurità paiono fantasmi, o forse veramente lo sono. La mole del Cupolone domina grave l’orizzonte.
È l’ora dei tg, e queste antenne apparentemente mute gracchiano, giù nelle case, dei vizi di Mafia Capitale. Roma qui sotto, sdraiata sui suoi colli, pigra, pare una donna bella e un po’ sfatta, che stia ad ascoltare, indolentemente.
Eppure oggi nella folla, in via Cola di Rienzo, quante facce serene, e bambini incantati dalle luci del Natale; e mendicanti a cui non pochi regalavano una moneta – e alcuni, ed è raro altrove, perfino una parola.
Di modo che da questo tetto guardo le luci di Roma e il gioco dei gabbiani, e mi dico che se rinasco voglio nascere qui, e non altrove. Massì, traffico incanaglito, cassonetti dei rifiuti che traboccano, e tutti i peccati di una vecchia, cinica capitale: ma tu, Roma, dico tornando con lo sguardo su San Pietro, di quanto sei più bella e più grande, nelle tue tenaci pietre, nella tua gente, del tuo male.
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