Pubblichiamo la rubrica di Maurizio Tortorella contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
«A mia figlia Giulia, la più piccola, i compagni di classe domandavano: perché tuo padre non è in prigione? Nel tritacarne mediatico i giornali ti bollano come corrotto e gli amici scompaiono». È bella e illuminante l’intervista che Graziano Cioni ha dato al Foglio.
Cioni, 70 anni, era un comunista tutto d’un pezzo. È stato esponente di punta del Pci-Pds-Ds-Pd toscano. Assessore alla Sicurezza di Firenze, nel novembre 2008 si candidò a sindaco, ma venne travolto politicamente e umanamente da un’inchiesta e poi da un processo per corruzione per un grande progetto urbanistico sull’area fiorentina di Castello.
Quell’inchiesta è appena terminata in nulla, in Cassazione. Ma Cioni ha vissuto quasi otto anni d’inferno. Oggi dice: «Ero un giustizialista convinto, che puttanata! Per me la legalità era una bandiera. Le garanzie? la presunzione d’innocenza? Non mi ponevo il problema: quel che un magistrato fa è giusto per definizione».
Cioni ricorda il famoso discorso di Craxi del luglio 1992, quando in piena Tangentopoli in Parlamento il segretario del Psi chiamò in correità tutti, dichiarando «spergiuro» chi avesse negato un finanziamento illecito. «Votai per l’autorizzazione a procedere», dice Cioni. «Oggi non lo rifarei. Pensavo Craxi avesse torto. Ho capito che avevamo torto noi».
E oggi cosa dice Cioni della giustizia? «Le carriere dei pm e dei giudici vanno separate. L’assoluzione deve essere inappellabile: io sono stato scagionato da ogni accusa in primo grado, ma il pm è ricorso in appello così mi sono ritrovato nel fuoco incrociato di una contrapposizione tra giudici. La responsabilità civile dei magistrati resta una chimera: perché chi sbaglia non paga? Si dice: questo potrebbe frenarli. Ma allora un chirurgo che dovrebbe fare?».
Un mostro da abbattere subito
Insomma, è un uomo folgorato sulla via di un processo, Graziano Cioni. E induce sincera compassione umana. La vita con lui è stata crudele, non solo dal punto di vista giudiziario. Ma il suo percorso mentale da giustizialista a garantista, per quanto straordinario e intimamente giusto, non stupisce nemmeno più. Anzi, contiene quasi una sconcertante regolarità. Accanto a Cioni, sono sempre più numerosi i giacobini che, colpiti da un avviso di garanzia ed entrati loro malgrado nel circo mediatico-giudiziario, scoprono la violenza che hanno alimentato fino al giorno prima. E a quel punto soffrono. Capiscono i disastri del populismo giudiziario e si fanno garantisti.
È così per Filippo Nogarin, sindaco di Livorno, e per Federico Pizzarotti, sindaco di Parma. Indagati a diverso titolo, oggi rivendicano la correttezza del loro operato e si ribellano: rifiutano di seguire le regole del Movimento 5 Stelle cui appartengono. Non si dimettono, benché il mantra grillino sia da anni “fuori dallo Stato ogni indagato”.
In realtà, stupisce che tutti costoro non lo abbiano capito prima. Che non abbiano compreso che l’errore è umano, e lo è anche l’errore giudiziario. E pertanto che non c’è alcuna certezza, né una “Verità” insindacabile. Né in un partito, né (tantomeno) in un tribunale.
Il problema è che non si può sempre attendere di subire un’esperienza giudiziaria, magari ingiusta, per comprendere che la presunzione d’innocenza va davvero utilizzata come regola superiore. Che l’arresto in carcere deve essere davvero l’ultima istanza. Che i giornali non possono devastare l’immagine di una persona: possono porre problemi, ma non dare certezze. Il circuito mediatico-giudiziario è un mostro che va affrontato collettivamente e contenuto, possibilmente annullato.
Non lo si è fatto per troppi anni, per miope calcolo politico. Ma di calcoli politici si può anche soccombere.
Foto Ansa