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Da qualche anno in Italia il dibattito sui diritti femminili, la parità tra i sessi e la violenza sulle donne è prigioniero di una logica di contrapposizione tra i sessi, tesa al superamento di una società maschilista attraverso un intervento culturale sugli stereotipi di genere e una maggiore partecipazione delle donne in politica. Tutto ha inizio con l’affermazione di un neologismo, “femminicidio”, «il termine irrompe nei media italiani nel 2012, portando con sé una nuova narrazione emergenziale di uomini che uccidono le proprie compagne ed ex in quanto donne, anche se originariamente questo termine, nella teoria femminista, era stato coniato per definire fenomeni diversi».
Daniela Bandelli, un dottorato di ricerca conseguito alla University of Queensland, docente a contratto alla Lumsa, è autrice di Feminicide, Gender & Violence (ed. Palgrave Macmillan), un libro fresco di stampa che analizza come la lettura di genere della violenza, diffusasi in Italia da uno strano intreccio tra discorso femminista sul femminicidio e quello progressista della competizione elettorale, «potrebbe mantenere nell’ombra la complessità delle diverse forme di abuso domestico, nonché la ricerca di una comprensione più completa delle relazioni violente tra uomini e donne e la messa a punto di politiche di intervento che tengano conto di fattori non direttamente legati al potere patriarcale».
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Quando si inizia a parlare di femminicidio, con quale accezione e perché?
Per capire questo termine bisogna partire dal 1976 quando la studiosa femminista Diana Russell al Tribunale internazionale sui crimini contro le donne utilizzò il termine “femicide” per definire gli omicidi di donne in quanto donne avvenuti nel corso della storia: dai roghi delle streghe, all’infanticidio selettivo, al delitto d’onore. L’iniziale traduzione in italiano è stata “femmicidio” e “femicidio”, termini che però non hanno mai attecchito fuori dai movimenti femministi. La diffusione è invece avvenuta con il più recente “femminicidio”, che sebbene semanticamente legato al termine di Russell, è stato inizialmente proposto al pubblico come la traduzione del termine spagnolo “feminicidio”. Quest’ultimo fu coniato negli anni Novanta dal movimento femminile a Ciudad Juarez in Messico per richiamare l’attenzione sul rapimenti, stupri e uccisioni sistematici di donne in un contesto di totale mancanza di tutela, narcotraffico, e migrazione interna di lavoratrici. Questi tragici eventi sono stati raccontati al grande pubblico dal film patrocinato da Amnesty International Bordertown con Jennifer Lopez e Antonio Banderas, uscito nelle sale italiane nel 2007. Nel 2008 l’avvocato Barbara Spinelli pubblica un saggio dal titolo Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale. Nel 2011 Giuristi Democratici, insieme a una coalizione di organizzazioni tra cui ActionAid e la Casa Internazionale delle Donne, propongono il termine in un rapporto ombra sullo stato di implementazione della Cedaw (la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna, ndr). Nel 2012 “Se non ora quando” nella campagna “Mai più complici” esortano gli uomini di prendere posizione contro il “femminicidio”. Allo stesso tempo, un’altra coalizione, guidata dall’Unione Donne Italiane (UDI), lancia la campagna “No More” per chiedere al governo di ratificare la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Nel 2012 il neologismo si afferma attraverso un’ondata mediatica, in cui le mobilitazioni femministe si intreccia no alla campagna elettorale per le elezioni del febbraio 2013. La crociata contro la violenza sulle donne diventa così un palcoscenico su cui vari soggetti politici acquisiscono visibilità. Si moltiplicano i libri, gli articoli, le trasmissioni televisive e radiofoniche sul tema della violenza maschile, che secondo la narrazione dominante va combattuta a colpi di cambiamento culturale e linguistico.
Innanzitutto il termine non ha un significato chiaro e condiviso: non vuol dire semplicemente omicidio di donna, non necessariamente implica che a commetterlo sia un uomo, non si riferisce solo a omicidi tra partner; oltretutto, in una delle sue accezioni originali in Sudamerica, il termine si riferiva a tutte le violenze contro le donne, non solo all’omicidio. Va da sé che un quadro semantico così instabile crea confusione su un fenomeno complesso, quello della violenza, che invece ha bisogno di una comprensione puntuale, sia dagli addetti ai lavori sia dall’opinione pubblica. Inoltre, il termine trascina con sé una particolare lettura della violenza sulla donna, quella di genere: nel momento in cui pronunciamo il termine “femminicidio” implicitamente attribuiamo a quell’omicidio delle cause legate al patriarcato e all’uguaglianza di genere. Questa lettura di genere spiega la violenza sulle donne attraverso la lente del potere, spiega l’omicidio delle donne da parte degli uomini con la posizione sociale che l’uomo e la donna hanno in una determinata cultura. Diversi intellettuali all’estero e in Italia concordano nel trovare questa spiegazione parziale, nel senso che da sola non può spiegare tutti gli atti violenti sulle donne, tutti gli omicidi di donne. In pratica, la cultura sessista è una causa, ma non l’unica causa della violenza maschile sulle donne. Oltretutto gli studi sui paesi del Nord Europa hanno dimostrato che una maggiore parità di genere non si traduce in un abbassamento dei tassi di violenza sulle donne. Questo suggerisce che sono anche altri i fattori e le letture da tenere in considerazione per capire e quindi affrontare il fenomeno con politiche pubbliche efficaci.
In base alle sue ricerche, ha senso parlare di violenza di genere? Ci sono altre categorie che andrebbero considerate quando si parla di violenza?
I dati mostrano che le donne vengono uccise principalmente da uomini, gli uomini da altri uomini. Il contesto sociale più comune in cui le donne sono uccise è quello domestico. La violenza sulla donna quindi ha sicuramente delle specificità, ma queste non possono essere sempre e unicamente spiegate dalla categoria violenza di genere. Questa categoria è utilizzata, anche nei documenti internazionali, come sinonimo di violenza sulla donna e sotto al cappello della “gender-based violence” vengono messi gli atti i più disparati: dall’omicidio, al linguaggio e le immagini cosiddette sessiste. Organizzazioni come l’Unesco precisano che per violenza di genere si intende anche la violenza contro le persone omosessuali lesbiche, bisessuali e transgender. Salta all’occhio che gli esclusi dalla categoria di vittime di questa cosiddetta violenza basata sul genere sono i maschi eterosessuali, esclusione che in qualche modo risulta coerente con l’impianto teorico del potere patriarcale: non si può essere vittima della violenza di genere se al contempo si fa parte della categoria del dominatore. Queste vittime vengono accolte in una diversa categoria: quella di Violenza Domestica o Violenza tra Partner (Intimate Partner Violence) dentro alla quale c’è spazio per analisi che prendano in considerazione fattori non solo legati alle relazioni di potere, al genere, ma anche fattori sociali, psicologici, dinamiche relazionali, la storia dei soggetti coinvolti, e così via. Tra l’altro è la stessa Convenzione di Istanbul a distinguere la violenza di genere da quella domestica, chiarendo che vittime di violenza domestica possono essere donne, uomini e bambini (in forma diretta o assistendo alla violenza tra gli adulti).
Come viene affrontato l’argomento dalle istituzioni?
L’approccio dominante delle politiche adotta la categoria del genere. Pensiamo alla legge n. 119 del 15 ottobre 2013, ideata in risposta al clima emergenziale del femminicidio: la legge, che per l’appunto si intitola “disposizioni urgenti per il contrasto della violenza di genere” prevede un “piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”. Nella stessa logica, l’Intesa tra il Governo e le Regioni, le Province autonome di Trento e di Bolzano e le autonomie locali del 27 novembre 2014 relativa ai requisiti minimi dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio, definisce “i Centri antiviolenza” come «strutture in cui sono accolte – a titolo gratuito – le donne di tutte le età ed i loro figli minorenni» e stabilisce che tali centri debbano «avvalersi esclusivamente di personale femminile adeguatamente formato sul tema della violenza di genere». Da ultima, è stata istituita a gennaio un’apposita Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere.
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