Tokyo. Non è casuale che la sfida nordcoreana (uscita dal “Trattato di non proliferazione e riarmo nucleare”) coincida con la sfida Usa all’Irak di Saddam Hussein.
Perché Pyongyang non vuole trattare con l’Onu
Adesso che l’Amministrazione americana ha bisogno di tutte le sue forze diplomatiche e militari per risolvere il problema Saddam e farlo digerire al mondo, Pyongyang sa che Bush non può reagire alle sue provocazioni a “muso duro”. Ma cos’è che vuole in concreto la Corea del Nord? Certamente soldi, cibo, petrolio e l’autorizzazione alla costruzione di due reattori nucleari leggeri. Ma non è questa la principale posta in gioco. Quello a cui Kim Jong Il punta veramente è il riconoscimento politico da parte degli Stati Uniti e la cancellazione della Corea del Nord dalle famose liste degli “stati canaglia” prima, “asse del male” ora, stilate dalle amministrazioni Clinton e Bush. Per questo Pyongyang insiste perché il problema della proliferazione nucleare, benché di pertinenza del Consiglio di Sicurezza Onu, venga risolto con un dialogo bilaterale con gli Usa, e solo con gli Usa.
Lo scenario internazionale
La Corea del Nord non possiede alcuna risorsa o valore economico particolare. L’unico motivo per cui esiste e continua ad esistere è perché costituisce il cuscinetto che impedisce alle truppe americane di affacciarsi direttamente sul confine cinese e su quello russo. Per questo nel 1948 l’Armata Rossa sovietica installò Kim Il Sung al potere e nel 1950 Pechino inviò un milione di “volontari” a fermare gli americani che stavano per spazzare via il regime comunista nordcoreano dopo che questo aveva tentato di conquistare il Sud. Dopo il crollo del blocco sovietico e i suoi effetti devastanti sull’economia di Pyongyang che viveva dei “fraterni” aiuti di Mosca, è toccato a Pechino far fronte alla miseria economica prodotta dal modello del più chiuso e folle regime comunista sopravvissuto sul pianeta. Non per niente a tutt’oggi la Cina copre il 40% del fabbisogno alimentare nordcoreano e ben il 90% di quello di combustibile. Eppure nonostante tutto l’aiuto che viene da Pechino, Pyongyang non esita a crearle imbarazzo. Quando nell’ottobre 2002 Jiang Zemin andò in Texas a far visita a Bush, i due parlarono anche della Corea del Nord. Jiang dichiarò che il governo cinese condivideva con gli Usa la denuclearizzazione della penisola. Pochi giorni dopo Pyongyang se ne uscì con la fatale dichiarazione relativa al programma nucleare militare. Nonostante l’affronto Pechino non può buttare a mare le relazioni con il piccolo e fastidioso vicino nordcoreano: quel cuscinetto, per quanto fastidioso, fa pur sempre comodo. E questo Kim Jong Il lo sa. Come sa che Pechino teme uno scenario che prevedesse il ritiro dei 37mila soldati Usa di stanza in Corea del Sud. Il venir meno dell’ombrello americano sotto il 38° parallelo coinciderebbe con l’inevitabile riarmo (probabilmente nucleare) di Seul e, soprattutto, del Giappone. D’altra parte il medesimo rischio di escalation potrebbe realizzarsi se Pyongyang sviluppasse effettivamente il programma di riarmo nucleare più volte annunciato in questi mesi. In tutti e due gli scenari la Cina, già a confronto con potenze atomiche come Usa, Russia, India e Pakistan, sarebbe completamente circondata da vicini armati di testate nucleari. Come se questi incubi strategici non bastassero, Pechino è quasi costretta a mantenere artificialmente in vita il regime concentrazionario della Corea del Nord: se crollasse la dittatura cosa accadrebbe dei 22 milioni di affamati che premono alla frontiera con la Cina? Attualmente sono già oltre 100 mila i rifugiati che hanno trovato riparo illegale oltre la frontiera cinese. Pechino non li vuole e per quanto possibile cerca di rispedirli là dove li attendono esecuzioni di massa e campi di concentramento. Per quanto riguarda la Russia, benché Pyongyang sia tornata a bussare alla porta del vecchio alleato (si veda il famigerato viaggio in treno di Kim Jong Il a Mosca nel 2001) è difficile immaginare che la diplomazia russa possa avere una qualche voce in capitolo sulle decisioni nordcoreane. Perciò, nella crisi attuale, pur condannando le minacce di Pyongyang, Cina e Russia hanno riaffermato con una dichiarazione congiunta l’impegno per una penisola coreana denuclearizzata ed espresso il comune auspicio che gli Usa tornino al tavolo delle trattative sulla base degli accordi del 1994. Per analoghe ragioni sia la Corea del Sud, sia il Giappone non si augurano il tracollo dell’ingombrante vicino. Men che meno un catastrofico conflitto. Quanto costerebbe economicamente, ma anche in termini di integrazione sociale, culturale e politica, ai “fratelli separati” della democratica, avanzata e benestante Corea del Sud una riunificazione tipo quella attuata da Kohl con la Germania Est, a fronte di un Nord ridotto a landa desolata, occupata come all’epoca del feudalesimo da una cricca militare e da milioni di servi della gleba? Per questo i sudcoreani il mese scorso hanno scelto come nuovo presidente il liberale Roh Moo Hyun, che ha condotto la campagna elettorale sostenendo il continuo impegno di dialogo con il Nord, escludendo vigorosamente il ricorso a sanzioni economiche per costringere il Nord a rispettare gli impegni internazionali.
Quali soluzioni Usa al problema?
Dunque Pyongyang è sola nella sua minaccia nucleare programmata con tempestività e astuzia nei confronti degli Usa. Sola ma non isolata, come sa bene Kim Jong Il: poiché né gli amici, né i nemici possono augurarsi un’uscita di scena traumatica del più ottuso, feroce e fallimentare regime sopravvissuto alla caduta del Muro di Berlino, tutte le cancellerie internazionali sanno che devono fare buon viso a cattivo gioco, cioè che la Corea del Nord non è l’Irak, e che perciò, a meno di una minaccia imminente, nei suoi confronti non si può adottare altra politica che quella della trattativa e del contenimento. Ovvio che tutto il can can sul diverso trattamento finora riservato a Irak e Corea del Nord non trovi grandi ascoltatori nell’Amministrazione Bush: le ragioni politiche e pragmatiche sono di gran lunga preponderanti rispetto ad ogni altra motivazione. A Washington probabilmente faranno tutto il possibile per congelare il problema nordcoreano, ricorrendo il più possibile all’appoggio internazionale e cercando di tirare in ballo il maggior numero di interlocutori possibili, in modo da non lasciarsi incastrare, almeno per il momento, in un confronto unicamente bilaterale che andrebbe a tutto vantaggio di Pyongyang. A meno che la Corea del Nord non cerchi lo scontro diretto.
Quali i rischi reali di una “guerra senza pietà”?
In effetti la minaccia militare coreana non è da prendere sottogamba. La base degli armamenti nordcoreani rimane perlopiù tecnologia sovietica obsoleta e le possibilità che possa modernizzarsi appaiono alquanto remote. A questo si aggiunge la mancanza cronica di carburante e parti di ricambio. Nonostante i grandi numeri che può mettere in campo con il suo milione e passa di effettivi, l’esercito nordcoreano non può realmente reggere un confronto militare con l’apparato bellico Usa. Eppure, oltre il 70% (nel 1992 era al 60%) dell’esercito nordcoreano è situato a meno di 70 miglia dalla Zona smilitarizzata, lungo il confine con la Corea del Sud. Ingenti forze di fanteria meccanizzate e carri armati sono disposti lungo le maggiori rotte sulla linea d’attacco, in grado di sfondare le difese del Sud con il minimo preavviso. Gran parte dell’artigliera (oltre 11 mila pezzi), che può fornire fuoco di copertura da basi sotterranee e trincee coperte, ha Seul nel raggio di fuoco. In altri termini, Pyongyang non potrebbe mai vincere una guerra e conquistare la Corea del Sud, ma potrebbe causare devastazioni incredibili in quel paese e forse, dato l’inventario missilistico, anche in Giappone. Tale eventualità è ben chiara a Washington così come i calcoli relativi ai costi economici e di vite umane, che diventano in questo modo un’ulteriore ragione per cui difficilmente l’Amministrazione americana s’imbarcherebbe di propria iniziativa in una guerra con Pyongyang. Rimane ovviamente il peggiore dei casi, quello in cui Kim Jong Il decida ad un certo punto di optare per un’opzione stile “muoia Sansone con tutti i Filistei” in un diabolico piano di morte e distruzione gratuita. Un piano che non si addice certo a uno “Stato canaglia”, il cui boss principale e cricca militare, sopravvivono, e bene, grazie al ricatto nucleare, vera propria forma di “estorsione” realizzata nei confronti della comunità internazionale. O se volete, di “pizzo” richiesto all’Occidente, da un regime che si vanta di aver pienamente realizzato il comunismo, cioè la più organizzata e muscolosa delle mafie di Stato.