
Processo nuove Br: «Sono una banda armata, non terroristi»
Milano. Progettavano un attentato al giuslavorista (oggi senatore Pd) Pietro Ichino e al manager dell’azienda Breda Vito Schirone, così come di incendiare le redazioni del quotidiano Libero e di uno sportello Biagi. Erano in possesso di quello che l’accusa ha definito un’«arsenale da guerra», con mitragliette Uzi e kalashnikov. Furono fermati nel 2007 prima che passassero all’azione: ma per la corte d’Assise d’appello di Milano che li ha giudicati oggi, i membri delle nuove Brigate Rosse non sono terroristi. Solo una banda armata.
Con una sentenza inattesa (e, per certi versi, storica) le condanne sono state dunque ridotte: l’ideologo delle nuove Br, Claudio Latino è stato condannato a 11 anni (nel primo processo d’appello era stato condannato a 14 anni e un mese), l’altro leader e ideologo, Alfredo Davanzo, a 9 anni (10 anni e 10 mesi), a 10 anni Vincenzo Sisi, altro membro di spicco del gruppo (12 anni e un mese). Questo è il secondo processo d’appello che si tiene per giudicare i presunti membri delle nuove Br, dopo che la Cassazione, lo scorso febbraio, aveva rinviato nuovamente in appello il processo proprio per valutare se gli appartenenti del gruppo potessero essere riconosciuti come terroristi. Ma l’interesse di questa sentenza, che nei fatti diminuisce ma non elimina le condanne, sta anche in altro: durante il processo i presunti neo br hanno rifiutato di avere degli avvocati (non riconoscono la «giustizia borghese dello Stato borghese») e hanno urlato a pieni polmoni l’ideologia alla base delle loro azioni.
«L’unica giustizia è quella proletaria, il vero terrorismo è quello dello Stato», hanno gridato alcuni degli imputati dalle celle di sicurezza, mentre parenti, amici e compagni presenti in aula hanno alzato al cielo il pugno chiuso. Lo stesso Pietro Ichino, oggi in aula (si è costituito parte civile), ha preso la parola per spiegare alla Corte che più volte aveva avanzato una proposta di dialogo coi presunti neobrigatisti, dichiarandosi pronto a perdonare. Ma ha sempre trovato una sorda chiusura, che ha spinto il professore a dichiararsi ancora oggi «in pericolo». Davanti a queste parole, gli imputati dalle celle hanno risposto con il pugno chiuso e un coro: «Vergogna, vai a lavorare».
«Queste persone – ha continuato Ichino, parlando coi giornalisti fuori dall’aula – vogliono decidere chi sia il simbolo dello Stato ed emanare sentenze di morte e di ferimento nell’ambito di una guerra che hanno dichiarato». E ancora: «Le minacce che mi rivolgono è uno dei motivi per cui devo ancora oggi girare sotto scorta». Alla «follia» degli imputati, ha affermato Ichino, «non c’è altro rimedio che la condanna in uno Stato di diritto». Che, invece, è arrivata annacquata. In aula, uno dei difensori degli imputati, nella sua arringa conclusiva ha citato ad esempio la sentenza con cui sono stati giudicati a Roma in primo grado altri appartenenti alla cellula capitolina delle nuove Br, che avevano messo in atto l’attentato alla caserma della Folgore a Livorno nel 2006. Pur condannandoli, il tribunale romano non l’aveva fatto per associazione terroristica ma per banda armata, giudicando l’attentato come un “dialogo tra cellule”. Sulla stessa linea si è oggi confermata la corte d’Assise d’appello milanese.
Articoli correlati
1 commento
I commenti sono chiusi.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!
eh….il vantaggio di non essere ciellini.