
Processo al processo. L’insostenibile strapotere di noi pm

«La Germania è più corrotta di noi», ebbe a dire Beppe Grillo in una conferenza stampa tenuta a Bruxelles (12 novembre 2014) dove citò i dati di un istituto di ricerca indipendente austriaco. Eppure, in vent’anni, la Germania ha fatto un percorso esattamente opposto al nostro. In Germania la politica ha impiantato il benessere. Da noi il dominio delle procure ha impiantato una crisi senza fine della politica e un drammatico, insistente malessere. La Germania oggi gode dei sacrifici economici compiuti per riunificare e riformare il paese. L’Italia patisce ancora le gride spagnole che hanno diviso il paese, rendendolo malmostoso e regredito sugli scudi della “lotta alla corruzione, lotta all’evasione”. Mica hanno affondato col coltello sulla corruzione che si annida nella testa dello Stato, condotto con metodi da briganti, apparati inutili e leggi contraddittorie. Mica si sono posti il problema della giustizia di quel 70 e passa per cento di tasse che annientano lavoro e sacrifici di famiglie e imprese, e che finiscono nel buco nero del Leviatano. No. Hanno continuato a occupare l’Italia con un potere opaco, irresponsabile e senza rischio di retrocessione economica (al 27 del mese lo Stato paga sempre e, nel caso della magistratura, paga bene). E la fiera mediatico-giudiziaria è diventata norma. Intanto, dalla cima di economia superiore alla media europea, dalla vetta di quinta potenza mondiale con rapporto Pil/debito pubblico al 98 per cento (siamo nel 1991, vigilia del repulisti permanente), l’Italia è finita sulla scia della corrente greca, sprofondata in dodicesima posizione (Pil/debito al 135 per cento) nella classifica delle economie mondiali. Per dire, nell’ultimo trimestre 2014 si è registrata una crescita del Pil italiano pari allo 0,0 per cento. Zero spaccato. Certo, mali antichi e congiunture negative recenti ci hanno zavorrato (mancate riforme, esplosione della spesa pubblica, crisi mondiale eccetera). Ma la questione di fondo, tutta irrisolta e tanto più sviata dall’effetto anestetico Renzi, ragazzo veloce ma che ben si guarda dal toccare il filo dell’alta tensione (vedi le riformine del gracile ministro Andrea Orlando), rimane il vuoto di decisionismo politico occupato da un pieno di sottocultura e potere delle manette che incidono profondamente anche sullo stallo industriale del paese (caso Ilva, che da sola vale 0,5 per cento del Pil italiano, docet).
E veniamo a Carlo Nordio. Uno dei grandi vecchi della magistratura italiana. Procuratore aggiunto di Venezia, titolare dell’inchiesta Mose. E che le quarte di copertina di una cospicua produzione saggistica ricordano essere stato, a partire dagli anni Settanta, protagonista di inchieste sulle Brigate Rosse, sui sequestri di persona e, negli anni Novanta, sui reati di Tangentopoli.
La magistratura deve essere un leone. Ma un leone sotto il trono, secondo la felice espressione dell’ex magistrato e poi politico di lungo corso Luciano Violante. Fosse lei il ministro della Giustizia cosa proporrebbe per riequilibrare lo strapotere giudiziario?
Non credo che un ministro della Giustizia possa più di tanto incidere su una situazione così consolidata. La commistione tra giustizia e politica, e la subordinazione della seconda alla prima, hanno origini profonde, culturali, psicologiche e sociali che sono emerse nella prima inchiesta di Mani pulite, dove cinque importanti partiti si sono dissolti davanti alle inchieste delle procure. Ma non è stata la magistratura a far troppi passi avanti, è stata la politica a far parecchi passi indietro, dimostrandosi debole e talvolta persino vile. Se la politica non si riappropria del suo primato, l’equivoco resterà e le inchieste continueranno a condizionarla.
D’accordo, ma come fa la politica a riappropriarsi delle sue prerogative?
Con la politica. Con che altro? Ad esempio, c’è un aspetto tecnico alla base di questo forte potere della magistratura inquirente. Il pubblico ministero italiano è l’unico al mondo che abbia un enorme potere senza responsabilità. Quando abbiamo introdotto il processo anglosassone, alla Perry Mason, abbiamo mantenuta inalterata l’indipendenza che il pm gode, alla pari del giudice. Oggi questa contraddizione è esplosa. Nel sistema americano, dove il pm dirige le indagini, la sua responsabilità è politica, perché il procuratore distrettuale è eletto dal popolo, e se sbaglia va a casa. Mentre nel sistema inglese, dove il pm è indipendente, la sua funzione è di avvocato dell’accusa, e le indagini sono condotte autonomamente dalla polizia. Noi abbiamo cumulato i privilegi, la direzione delle inchieste e l’indipendenza assoluta: unico caso, dicevo, di potere senza responsabilità. Anche se non credo che qualche magistrato ne abbia fatto un uso politico, è inevitabile che parte dell’opinione pubblica lo abbia sospettato.
Sorprende che la “rivoluzione” annunciata da Renzi neanche arrivi a sfiorare temi essenziali della giustizia, quali la separazione delle carriere e l’obbligatorietà dell’azione penale. Cosa ne pensa?
In effetti la separazione delle carriere è un’altra conseguenza inevitabile dell’introduzione del processo accusatorio. Trovo assurdo, peraltro, che dei pm che stanno al consiglio giudiziario e al Csm giudichino i loro colleghi giudici, magari gli stessi che hanno dato loro torto nei processi. Tuttavia, nello sfascio generale della giustizia penale, non credo che sia il problema più urgente da risolvere.
Però sarebbe urgente ammettere che il dettame costituzionale sull’obbligo dell’azione penale è una mera finzione, dietro alla quale si nascondono pratiche giudiziarie ai limiti dell’arbitrarietà.
È vero. Da noi, ipocritamente, si mantiene l’obbligatorietà sotto il pretesto fasullo che garantisca l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Con il risultato che, essendo materialmente impossibile trattare tutti i reati, ogni procura mantiene una discrezionalità di fatto che sconfina nell’arbitrio, e in pratica fa quello che vuole. Ma anche qui, la discrezionalità dell’azione penale è pure connessa al sistema anglosassone. Si tratta di una discrezionalità vincolata, dove con assoluta trasparenza vengono fissati i criteri di precedenza dei processi, in base alla gravità del reato e al suo allarme sociale.
E veniamo alla corruzione, sorta di bandiera che sembra giustificare lo stato giudiziario di eccezione e di mobilitazione permanente italiano.
L’approccio tradizionale è sempre stato dogmatico e vagamente ispirato a un’etica pedagogica: più leggi, più controlli, più pene. Basterebbe leggere Tacito («corruptissima republica, plurimae leges») per capire che si sta percorrendo la strada sbagliata: più sono le leggi, più lo Stato è corrotto; e più è corrotto, più è proliferativo; più le pene aumentano, meno vengono eseguite. Lo scriveva già Manzoni.
Dove stanno l’equivoco e il rimedio?
L’equivoco risiede nel confondere il motivo della corruzione con gli strumenti con i quali essa viene consumata. I motivi sono tanti, ma prendiamone due: l’avidità umana e i costi della politica. Per la prima si è pensato alla repressione penale: sei un amministratore infedele e rapace? Ti aumento i reati e gli anni di galera. Per i secondi si è detto: finanziamo i partiti legalmente. Poi si è visto che le pene non son servite, e i partiti, una volta copiosamente finanziati, hanno rubato ancora di più. E sarà sempre così finché si vorrà combattere la corruzione intervenendo sulle sue cause. Perché esse sono molteplici e soprattutto ineliminabili: è dai tempi di Lisia che leggiamo di processi contro i corrotti, in tutti i regimi e a tutte le latitudini. Occorre dunque intervenire sugli “strumenti” che consentono al pubblico ufficiale di farsi corrompere. E questi strumenti sono le leggi: numerose, ingarbugliate, contraddittorie, incomprensibili. È maneggiando queste norme che il ministro, il sindaco o qualsiasi organismo pubblico possono vessare il cittadino chiedendogli un compenso illecito. E senza nemmeno esporsi troppo. Rallentando l’iter amministrativo, sarà lo stesso imprenditore a capire che, prima o dopo, dovrà ungere le ruote. E da vittima diventerà istigatore, anche se sarà stato il sistema a costringerlo ad attivarsi in modo illegale.
Piercamillo Davigo, già nel pool di Mani pulite e oggi consigliere di Cassazione (nonché fondatore da scissionista di Magistratura indipendente della nuova corrente Autonomia e indipendenza), ha chiamato a raccolta magistrati e Anm per contrastare la “riforma” Orlando in materia di responsabilità civile delle toghe. Ci rammenta perché anche lei è contrario a questa norma? In quale altro modo consiglierebbe di tutelare i cittadini da arbitrarietà, discrezionalità, politicità dell’azione giudiziaria?
La responsabilità civile dei magistrati poggia sul paralogismo “chi sbaglia paga”. Ora, è giusto punire il magistrato che sbaglia perché non conosce una norma o non ha letto le carte del processo, ma troverei più razionale punirlo nella carriera, in via disciplinare, o con un risarcimento dal quale si cautelerà con un’assicurazione. Ma se, come pare, si comincia a distinguere tra sentenze giuste e sbagliate, se si entra cioè, magari surrettiziamente, nel merito della decisione, gli ostacoli sono insormontabili, perché spesso sulla stessa questione si sono pronunziati più organi, e in modo difforme. Chi ha fatto bene e chi male? La stessa Cassazione spesso cambia idea. Senza contare che le sentenze più importanti, quelle che mandano un tizio all’ergastolo, sono decise da una maggioranza di giudici popolari. Distinguere la loro responsabilità da quella dei togati sarebbe illogico e incostituzionale. Affermarla significherebbe non trovare più un cittadino disposto a questo compito già visto malvolentieri. E ancora, il rischio – visibile già oggi nella cosiddetta medicina difensiva – che il magistrato, che è pur sempre un uomo che tiene, come si dice, famiglia, pensi alla propria tutela più che a una decisione magari contro una parte potente. Infine una considerazione: la nostra attività è, in tutto il mondo, ad altissimo rischio di “errore”. Infatti tutti i sistemi democratici prevedono appelli e ricorsi, mentre non esistono un ponte o una sala operatoria di secondo grado.
Viviana Del Tedesco, procuratore a Udine, in una audizione parlamentare sulle inchieste in materia di imprese e ambiente, ha fatto presente che mole e farraginosità delle leggi italiane trasformano i pm in “cecchini”. Testuale: «Se esaminiamo le conferenze di servizi e le prescrizioni, sfido chiunque a capire quello che c’è scritto. Poi, siccome questi atti sono interpretabili, arriva sempre qualcuno che non è d’accordo con quello che si è fatto e il soggetto è rovinato. È come un cecchino che aspetta la vittima per spararle addosso».
È perfettamente così. Le nostre leggi si contraddicono spesso, e rispettarne una significa violarne un’altra. Come ho detto prima, nella corruzione la principale causa risiede nel delirio proliferativo dissennato e oscuro che da quarant’anni ci opprime.
Tempo fa Giandomenico Lepore ci fece questa colorita confidenza: «Durante i miei sette anni da capo procuratore a Napoli, mi sono accorto che arrivano in Procura giovani magistrati e ognuno di loro che va a ricoprire l’ufficio di pubblico ministero si crede un Padreterno, si crede al di sopra delle parti», ma «per essere dei buoni magistrati non occorre protagonismo per poi magari un giorno, sull’onda della notorietà, procacciarsi un posticino in politica. È anche a questo riguardo che la riforma del 2006 diede funzioni ordinatrice e coordinatrice al capo dell’ufficio. I pm non possono pretendere di godere della stessa indipendenza e autonomia del giudice. Sono parti e quindi devono in qualche modo rispondere al capo ufficio». È sufficiente il controllo del capo ufficio-capo procuratore per evitare i danni da “magistrati che si credono padreterni” e sono in cerca di protagonismo?
Il controllo del procuratore sui sostituti è essenziale per garantire unità e coerenza nella gestione dell’ufficio. Purtroppo nei decenni passati si era diffuso il pernicioso pregiudizio ideologico che, in base all’autonomia e indipendenza della magistratura, ogni pm potesse fare quello che voleva. Su questo punto la responsabilità di molti nostri colleghi è immensa. Per il resto Lepore ha ragione. Ma l’arroganza, che generalmente si associa alla inavvedutezza critica, cioè alla stupidità, non si cura con le leggi. Le due doti fondamentali di un magistrato, l’umiltà e il buon senso, si coltivano semmai con le buone letture, che ci insegnano i limiti del nostro conoscere e del nostro ragionare.
Nella sua nota al Crainquebille, segnala un bizantinismo tipico della giustizia italiana. “Caso Kobayasci”, giapponese a Venezia che smarrisce il cellulare e suo malgrado avvia un procedimento per cui il suo fascicolo prima di chiudersi passerà per una decina di istruttorie e causerà ingorghi, costi, sperperi per lo Stato, frustrando umanamente e professionalmente gli stessi operatori della giustizia. Lei postilla: «Almeno un quarto del nostro lavoro è completamente inutile». Ci dica un paio di idee per tagliare questa macchina kafkiana e restituire utilità al lavoro dei magistrati.
È molto semplice. Noi abbiamo un complesso normativo che nessuno ha mai quantificato, ma che supera le duecentomila leggi. Circa dieci volte quelle della media europea. Bisogna eliminarne – dico eliminarne, non modificarne – il 90 per cento. Con quelle restanti vivremmo meglio, e tutto sarebbe più facile, anche la lotta alla corruzione.
Foto giustizia da Shutterstock
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3 commenti
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D’accordissimo con il Dott.Nordio,però una domanda mi sorge:come fa la politica a riappropriarsi del suo compito centrale se il parlamento é pieno di magistrati e avvocati? e se la gran parte della stampa(specie quella dei maitre a’ penser)é al loro servizio?É un corto circuito cui é molto difficile sottrarsi poiché la politica é troppo facilmente sotto ricatto.Certo la massiccia semplificazione e chiarificazione delle legge di cui Nordio parla é lo snodo fondamentale..ma chi ne ha il coraggio?Di seguito,responsabilità diretta(sul piano disciplinare,sì),separazione rigida delle carriere,due Csm o un organo terzo e realmente indipendente,discrezionalità dell’azione penale,revisione della procedura processuale,pm eletti dal popolo e attività investigativa autonomamente affidata alla polizia giudiziaria,avanzamento di carriera per merito,controllo dei procuratori sull’atattività dei loro sottoposti e,infine,rottura del cordone ombelicale tra magistratura inquirente e direttori(giornalisti)di giornali!!.Una vera rivoluzione occorre ma la sinistra(in particolare)non la vuole..
.e dunque??!!
Mi viene in mente la canzone di de andre’ , il giudice … L’uso politico della legge , vecchia storia sempre attuale però .
un altro aspetto importante è che in Italia uno può essere processato più volte per lo stesso reato… primo grado, appello, cassazione. .. quest’ultima può rimandare tutto in primo grado, così si ricomincia daccapo. Non mancano casi di persone processate 6 volte per lo stesso reato
mi pare assurdo che la procura possa ricorrere in appello e cassazione, se non per casi gravissimi. Di fatto i PM dispongono di strumenti eccezionali di indagine: scientifica, super periti, intercettazioni, sequestri, etc. le indagini possono durare un periodo indeterminato. Tutto a spese della collettività. .. l’imputato invece deve pagare in prima persona le proprie indagini.
spesso, nonostante sia assolto deve difendersi anche nei successivi processi che spesso ribaltano più volte le sentenze. .. non mancano casi a mio avviso vessatori.