Hanno dovuto cercare a tutti i costi un suo sgarbo al regolamento, ossia il fatto che Daniel Pablo Osvaldo avesse saltato la premiazione al termine della finale di Coppa Italia. Puzza di ipocrisia la ragione per cui l’attaccante della Roma è rimasto fuori dalla Nazionale in vista della Confederations Cup, vittima del codice etico applicato dal Ct Prandelli. Perché, parliamoci chiaro, il fatto che l’attaccante della Roma litighi e mandi a quel paese il proprio allenatore non è nulla di più di una normale vicenda di spogliatoio, o per lo meno nulla che possa riguardare le sfere azzurre più di quelle giallorosse: andava gestita all’interno degli organi capitolini, o con un normale faccia a faccia tra i due.
Non è la prima volta che si sentono alterchi simili: se ci si dovesse stracciare le vesti ogni volta che un Cassano alza il sopracciglio perché relegato in panchina, un Di Natale se la prende per una sostituzione o un Totti si lascia andare ad una reazione troppo sopra le righe per un cambio, allora il pallone perderebbe tutta la sua dimensione che lo rende appassionante, ossia le gesta straordinarie di uomini ordinari, che tali restano, con i loro sbagli e le loro immaturità.
MONDIALE 2006 E CALCIOPOLI. Invece, ecco che la vicenda ha assunto toni nazionali, portando in fretta all’esclusione dal gruppo azzurro di Osvaldo. Ma davvero è corretto che la nostra Nazionale si privi di un suo interprete perché colpevole di un comportamento poco retto?
La storia del calcio di casa nostra insegna tutto il contrario. Basti pensare ai più grandi successi azzurri, alcuni costruiti su attori che, se all’epoca un codice etico fosse esistito, sarebbero stati costretti a rimanere a casa. La freschezza del ricordo obbliga tutti a ricordarsi del 2006, anno della vittoria dei Mondiali tedeschi. Chissà cosa sarebbe successo di quel gruppo se non ci fossero stati Cannavaro o Buffon, Camoranesi o Del Piero, tutti nomi della Juventus investita in pieno dallo scandalo Calciopoli. Sapevano? Non sapevano? Il solo sospetto sarebbe bastato a farli fuori. Invece Lippi se li portò in Germania, e vinsero il Mondiale.
ROSSI IN SPAGNA DOPO IL TOTONERO. Ma ancor più esemplare è tornare indietro al successo azzurro precedente, quello datato 1982. Il Mundial di Spagna si giocò nel nome di un ragazzo, Paolo Rossi, capocannoniere azzurro della rassegna con 6 centri. Fu grande la polemica quell’estate su Bearzot: Pablito arrivava dallo scandalo del Totonero, era stato condannato con due anni di squalifica per aver truccato l’esito di alcune partite e solo a tre giornate dal termine del campionato era tornato a giocare con la Juve. Eppure Bearzot scelse lui e non Pruzzo. E se nella prima parte del torneo Rossi non segnò mai, dalla tripletta al Brasile nessuno lo riuscì più a fermare.
DISPARITÀ DI TRATTAMENTO. Le storie di successi costruiti su bad boys potrebbero alternarsi in maniera infinita, anche al di là del calcio dei nostri confini: l’Argentina di Maradona, la Juventus di Sivori, lo United di George Best, la Lazio di Chinaglia… Se non ci fossero stati loro, così geniali e folli, così imprevedibili e aggressivi, la storia del calcio sarebbe stata diversa.