
Piazza Tienanmen. Trent’anni dopo, siamo ancora davanti ai tank

Articolo tratto dal numero di Tempi di giugno 2019.
Trent’anni fa, nell’aprile del 1989, ero un giovane studente di Fisica di 21 anni all’università Tsinghua e mai avrei immaginato che pochi mesi dopo il mio nome sarebbe apparso, al quinto posto, nella lista dei 21 “criminali” più ricercati dal governo comunista cinese. Essere in quella lista è stato il più grande onore della mia vita. Ho avuto la fortuna di partecipare al grande movimento democratico del 1989, l’unico momento nella storia della Cina in cui i cinesi hanno potuto esprimersi in modo libero. Tutti parlano del massacro, ma è importante soprattutto ricordare che cosa è successo nei mesi precedenti: c’era un tale sentimento di gioia e liberazione, all’improvviso la libertà sembrava così vicina, quasi a portata di mano. Sono nato a Xian il 5 ottobre 1967 e mi sono laureato in Fisica all’università Tsinghua. Nel 1988 ho organizzato nella mia università le prime e uniche elezioni libere di un’organizzazione studentesca e sono stato in seguito eletto tra i leader della Federazione autonoma degli studenti di Pechino. È stato uno dei primi esperimenti di processo democratico e hanno partecipato moltissimi studenti, segno che c’era un fortissimo desiderio di democrazia e libertà.
Le proteste sono iniziate subito dopo il 15 aprile, giorno in cui morì l’ex segretario generale del partito comunista Hu Yaobang, epurato dal regime perché troppo liberale e simpatetico con studenti e intellettuali. Ricordo che siamo usciti dal campus e ci siamo diretti verso Piazza Tienanmen e mi rendo conto probabilmente di essere stato il primo a deporre là una corona di fiori in onore di Hu ai piedi del Monumento agli eroi del popolo. Il terzo giorno ho parlato in piazza a tutti gli studenti comparando la Dichiarazione di indipendenza americana alla Costituzione cinese e abbiamo fatto una petizione con due richieste fondamentali al governo: aumentare la libertà di stampa e porre fine alla corruzione dei leader del partito. Entrambe le richieste sono state respinte e il movimento ha cominciato a crescere. In pochi giorni sono arrivate più di 100 mila persone in piazza e io ho fondato la stazione radio “La voce degli studenti” per far conoscere ciò che avveniva.
Il 26 aprile [l’allora leader di fatto della Cina] Deng Xiaoping ci ha minacciato dicendo che saremmo stati severamente puniti se non ci fossimo fermati. Ma il giorno dopo gli studenti erano ancora più numerosi e motivati per rispondere all’ingiustizia e alla brutalità del regime. In poche settimane la protesta si trasformò in un vero movimento di popolo guidato dagli studenti. Il 4 maggio ci furono dimostrazioni a Pechino e in centinaia di città in tutta la Cina partecipate da centinaia di migliaia di persone di ogni estrazione sociale. Siccome il partito si rifiutò di soddisfare le nostre richieste, il 13 maggio cominciò lo sciopero della fame degli studenti. In quei giorni mi sono impegnato per organizzare delle stazioni mediche nella piazza, per garantire i rifornimenti di cibo e acqua a tutti i manifestanti e per predisporre dei corridoi per l’entrata e l’uscita delle autoambulanze, che andavano e venivano di continuo per soccorrere gli studenti. Il 19 maggio, a due giorni dallo svolgimento a Pechino di una marcia di oltre un milione di persone a sostegno degli studenti, l’allora segretario del partito comunista Zhao Ziyang, favorevole al dialogo, fu rimosso dal suo incarico. A mezzanotte si presentò in Piazza Tienanmen di sorpresa. Io non ero presente quando, quasi in lacrime, disse: «Siamo arrivati troppo tardi, meritiamo le vostre critiche».
Il 20 maggio il governo dichiarò l’entrata in vigore della legge marziale e il giorno dopo battaglioni dell’esercito cercarono di entrare in centro a Pechino ma furono bloccati dalla popolazione. Ritornarono due settimane dopo. La mattina del 3 giugno ero al campus universitario quando sentii la notizia che l’esercito si stava riorganizzando. Sono salito sulla mia bicicletta e ho pedalato quattro ore fino a Tienanmen. Ho passato tutta la notte vicino al Monumento agli eroi del popolo, nel cuore della piazza. All’una di notte tutti gli accessi erano stati bloccati dall’esercito, che ci intimò di andarcene entro l’alba. Dopo una votazione generale decidemmo di uscire. Durante l’evacuazione cominciò una vera e propria guerra: spari, lanci di lacrimogeni, il rombo dei carri armati dappertutto. Io ero nell’occhio del ciclone e riuscii a salvarmi. Appena abbandonata la piazza, gli studenti furono inseguiti nelle vie vicine dai soldati e dai carri armati. Molti furono falciati di spalle. Quella notte e la mattina dopo ho visto con i miei occhi decine di cadaveri ammassati per strada.
Un anno ammanettato
Il 13 giugno il partito ha diffuso in televisione una lista di 21 ricercati: la mia faccia e il mio nome erano in quinta posizione. Mi trovavo in quella lista perché ero uno dei leader degli studenti. Quello stesso giorno sono stato arrestato a Xian e portato a Pechino nel carcere di Qincheng. Ho vissuto in prigione un anno e tre mesi consecutivi, giorno e notte, sono rimasto ammanettato. Ricordo ancora la sensazione e il dolore per le manette ai polsi. Il 6 giugno del 1990 sono stato tra i 97 prigionieri politici rilasciati grazie alla pressione internazionale e sono stato trasferito vicino al confine con la Mongolia, dove ho subìto un anno di “rieducazione politica”, passata per lo più in isolamento. Nel 1995, dopo una lunga battaglia per ottenere il mio passaporto, sono scappato negli Stati Uniti, dove vivo tuttora in esilio. Dopo aver conseguito all’università di Chicago un master in Business Administration, ho intrapreso la carriera di analista finanziario a San Francisco.
Nel 2007 ho fondato l’organizzazione Humanitarian China per raccogliere fondi e aiutare i prigionieri politici in Cina. Io sono un sopravvissuto e il mio compito è quello di portare avanti gli ideali di Piazza Tienanmen. Essendo un dissidente, mi sento vicino a tutti coloro che oggi vengono imprigionati in Cina perché si battono per una società libera e aperta. Nel 2000, insieme ad altri sopravvissuti al massacro, ho denunciato Li Peng, che nel 1989 era il primo ministro e che firmò l’ordine per imporre la legge marziale a Pechino. Li Peng ha più di 90 anni e non mi illudo che verrà mai processato e che pagherà per i crimini compiuti. Io stesso ho ormai 50 anni e forse morirò prima di vedere la giustizia e la verità ristabilite, ma le famiglie dei responsabili del massacro, che si sono enormemente arricchite grazie alla corruzione, dovranno pagare un giorno. Ancora oggi la dittatura comunista impedisce ai cinesi di conoscere la verità e arresta chiunque cerchi di commemorare le vittime del massacro. Il partito comunista ha paura della verità perché teme che i giovani possano lasciarsi ispirare dagli studenti di Tienanmen e protestare contro il regime totalitario. L’attuale governo guidato da Xi Jinping, infatti, non ha nulla di diverso da quello del 1989. I geni sono gli stessi. Il partito vuole mantenere il potere ad ogni costo e tiene in ostaggio oltre un miliardo di persone. Oggi è ancora più potente di allora e ha imparato a essere più sofisticato nella persecuzione. Grazie alla globalizzazione e alla tecnologia, inoltre, la Cina è diventata una potenza economica davanti alla quale tutto il mondo si inchina, ma bisogna capire che il regime è una minaccia per tutti.
Nel 2014, in occasione del 25esimo anniversario del massacro, sono riuscito a tornare in Cina per due giorni dopo due precedenti visite clandestine nel 2007 e nel 2010: dopo essermi recato al centro di detenzione dove molti miei amici sono stati rinchiusi, di notte ho visitato Muxidi, il primo quartiere dove i soldati hanno aperto il fuoco; Jianguomen, dove le colonne di carri armati hanno distrutto le barricate improvvisate; e infine Piazza Tienanmen, dove ho passato così tante notti, venendo letteralmente travolto dall’emozione. La polizia poi mi ha trovato, ha minacciato me e la mia famiglia, mi ha interrogato per 18 ore, proponendomi diversi accordi e dopo il mio rifiuto mi ha rimesso su un aereo per gli Stati Uniti.
Il rischio di una guerra mondiale
Se ripenso a quanto successo 30 anni fa mi rendo conto che noi studenti siamo stati ingenui: non pensavamo che il governo avrebbe mai potuto massacrare il suo stesso popolo. Tutti siamo rimasti scioccati nel vedere l’intervento dell’esercito e dei carri armati: la reazione del partito comunista è stata spropositata, insensata, anche perché tutto il popolo cinese ci sosteneva. Oggi una simile protesta non è solo difficile, è impensabile. La gente non si rende conto dell’entità della repressione in Cina. Grazie a internet, all’intelligenza artificiale, alle telecamere e agli enormi dispositivi di sicurezza ogni singolo individuo è controllato costantemente. Quando rifletto sul futuro della Cina non posso essere ottimista e non so se vinceremo domani. Sono però convinto che dobbiamo resistere e che, presto o tardi, il popolo cinese trionferà. Per questo mi impegno a sostenere gli attivisti e porto avanti la causa di Tienanmen. Il partito comunista è senza scrupoli e non si ferma davanti a nulla: nonostante la pressione internazionale, ha fatto morire di cancro in prigione il premio Nobel per la pace Liu Xiaobo nel 2017. Tutto il mondo dovrebbe allarmarsi perché la Cina è assetata di potere e c’è il rischio che scateni una guerra mondiale. Chiunque ama la libertà deve combattere contro la Cina per difendere la democrazia e commemorare gli studenti di Piazza Tienanmen in questo 30esimo anniversario. Tienanmen è stata la più grande dimostrazione pacifica della storia del mondo. Tienanmen è stata un festival di libertà. Tienanmen è la chiave di volta del passato e del futuro della Cina.
Testo raccolto da Leone Grotti. Foto Ansa
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