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Periferie esistenziali. Donne così non ne fanno più. Sveglia alle tre di mattina, sui campi dall’alba: quelle che si fermano a Eboli

Poi di nuovo sul pulmino per tornare a casa. Dove le aspetta l’altro lavoro. Quello per mandare avanti la famiglia. Una giornata con le contadine della Piana del Sele

Peppe Rinaldi
27/07/2014 - 3:10
Società
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Mista straniere italiane
Continua il viaggio di 
Tempi nelle periferie esistenziali. Le tappe precedenti: Rodolfo Casadei tra Camerun e Ciad nella regione dei tupurì africani, Monica Mondo in una borgata romana, Piero Gheddo nella missione di padre Belcredi in Amazzonia, Gian Micalessin a Shura Ashuk (Tripoli) con suor Emma Moja, Antonio Gurrado a Oxford, Angelica Calò Livné in Israele, nel kibbutz Sasa, Lorella Beretta nelle township del Sudafrica.

Non hanno molto tempo per bisticciare col marito che si rifiuta di accompagnarle all’Ikea. E neppure con figli o nipoti perché in ludoteca la torta di compleanno non aveva la statuina zuccherosa di Minnie uguale a quella vista in tv o sull’iPad dell’amichetto più fortunato. Nelle loro case, tra un camino in pietra d’altri tempi e una cristalliera in arte povera, cucine laccate e stanze da letto ancora inviolabili, magari spunta pure il televisore a cristalli liquidi, tanti pollici di ultima generazione, ma la sensazione che si riceve è di non essere in mezzo a gente che ha tempo che avanza per la depressione, magari post parto e magari a cinquant’anni, o ha appena presentato un ricorso al Tar contro la scuola incapace di apprezzare quel genio del figlio, appena bocciato.

Sono ben altri gli àmbiti frequentati da queste ultime “mohicane” della terra: donne vere, donne normali, più normali di altre che pure portano sulle spalle il peso di mezza nazione. Donne in carne e ossa, milioni di anni luce distanti e distinte dai patemi mainstream sul corpo delle donne e i vari #senonoraquando. Oggi sono poche, ma un tempo furono tantissime, l’Italia è in gran parte scolpita nel sudore di queste coraggiose femmine piegate nei campi sin da quando le otto ore in fabbrica rappresentavano un miraggio o perfino un privilegio. Com’è ancora oggi, in un certo senso, perché c’è sempre qualcuno più “periferico” di te.

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Perna AntonierraBenvenuti a Eboli, nella sua sterminata piana – quella del fiume Sele, già Sylarus al tempo di chi, tra una guerra e l’altra, fondava la civiltà occidentale – che a nord sfiora Salerno tagliando Battipaglia e a sud chiude con Paestum. Davanti, circa trenta chilometri di costa che fa da spartifuoco tra il Cilento e la “Divina” amalfitana; in mezzo, migliaia e migliaia di ettari zeppi di periferie esistenziali che neppure immagini.

Sono femmine, sono italiane, la media è sui 40 anni, la più anziana è vicina alla pensione anche se «’u guvern’ m’ha fatt’ fess’», sostiene alludendo alla cosiddetta riforma Fornero. «Ma ’u guvern’ nunn o’ sap’ che signific’ faticà miezz’a terr’», il governo non sa cosa significhi lavorare la terra, aggiunge in un misto linguistico irresistibile per simpatia e sonorità. Infatti, chi può saperlo cosa significhi se non le frotte di romene, ucraine, moldave e bulgare che hanno spazzato via le “nostre” donne dai campi, e non solo per colpa della globalizzazione? Come dar torto a Rosetta Palmieri, 51 anni, da San Pietro al Tanagro, mezza vita nella terra, l’altra mezza a curare i genitori anziani, tutte e due le metà in attesa della giornata che finisce nei campi ed è «sempre una buona giornata», perché significa che il pane a casa ci sarà anche oggi?

È un pane di cui ha bisogno per davvero Rosetta, altrimenti perché andare a spaccarsi la schiena, bruciarsi la pelle, i capelli e le mani per trenta miseri euro, tre giorni di sigarette di un “fumatore medio-alto”? Intanto alla radio, verso le 4,40 del mattino, lungo il tragitto che dalle montagne porta giù nella piana e mentre il chiarore del sole nascente inizia a farsi luce vera, scorrono già programmi sulle difficili scelte della nostra vita quotidiana, a partire dalla nazionalità della manicure: meglio cinese, meglio l’estetista di scuola di formazione professionale o quella fai-da-te? Per una donna che sta per farsi sei-otto ore piegata sotto il sole a tirar su meloni o fragole non è esattamente una priorità.

Perna Antonietta e padrone che controllaPer strada con il “caporale”
L’esistenza in questa periferia comincia sul finire di maggio (dopo alcune semine di marzo) e si intensifica dal giorno di Sant’Antonio, quando parte la raccolta dei meloni e mancano appena quindici giorni alla fine di quella delle albicocche, sebbene arrampicarsi sugli alberi sia più roba per uomini (lo ammettono tutti qui, senza problemi né birignao contro il “sessismo”).

Il “caporale” che ogni notte raccoglie le lavoratrici nei punti di raccordo per chi scende da San Gregorio Magno, Buccino, Colliano, Valva, Petina, San Rufo, Teggiano, Sant’Arsenio, Palomonte, Sicignano degli Alburni, Acquara, Casaletto Spartano, Sanza, Sacco, Piaggine (piccoli paesi che coprono tre vaste aree a sud di Salerno), ha rinviato più volte l’appuntamento con Tempi: è diffidente, tentenna, un giornalista è sempre una rogna, non sia mai che si tiri dietro l’ispettorato del lavoro o altre diavolerie statali. Non che non sia in regola, il caporalato come ce l’hanno sempre raccontato è più una suggestione sindacal-letteraria che non l’essenza dello schiavismo (quello vero si scorge meglio altrove).
Sul rispetto delle leggi il discorso sarebbe lungo, siamo pur sempre al Sud. Il guaio invece è che nonostante le aziende agricole si sforzino di fronteggiare la tirannia fiscale e burocratica, «quelli se vogliono qualcosa fuori posto te la trovano sempre». E addio giornata, addio ai trenta euro di Rosetta e delle sue colleghe, che per l’imprenditore di turno sono già diventati sessanta se non di più, tra balzelli, contributi e tasse.

A bordo del pulmino, un gruppetto di donne di nazionalità straniera (maggioranza schiacciante, in un rapporto di 8 su 10) protesta con l’autista e dice che il viaggio con loro è meglio non farlo: avranno le loro ragioni, forse paura, magari vergogna, chissà. Giù nella piana il giro è lungo. C’è chi ci mette un’ora, chi due, chi addirittura tre prima di sbarcare nei campi. Idem per il rientro.

Una buona colazione, spesso un quartino di vino, fazzoletto in testa (il mitico “maccaturo”), zainetto in spalla: sveglia dalle 3,30 in poi, partenza poco più tardi, arrivo a seconda della provenienza. Alle 6 si mette mano agli attrezzi, all’una si stacca, altre iniziano alle 7,15 e finiscono alle 14,30 ma non in agosto, quando è umanamente impossibile continuare con il sole che ti frigge, il sudore che gocciola incessante e le mosche ti dicono che è ora di andare, tanto domani si ricomincia. Si torna verso casa, la testa appoggiata sul cuscino del sedile per un pisolino, mentre sotto il sole del pomeriggio fa sempre più caldo.

Mista italiane straniere con furgoneDi generazione in generazione
Le donne tornano là dove continueranno a lavorare, Assunta Verdoliva, Maria Rita Pisano, Lucia Pia Robertazzi, Filomena Cuocolo, Anna Parente ed Enzina Russolillo, autentiche rarità in questo oceano di straniere che si preparano a dare vita a un nuovo ciclo storico ed esistenziale in questa periferia. Tornano nelle loro abitazioni, case di campagna lungo le strade provinciali e interpoderali che tagliano in lungo e in largo la Piana del Sele, perché hanno figli da accudire, genitori da curare, mariti che attendono, chi il pranzo chi la cena. Non ci si fa il problema della parità da queste parti: c’è roba più seria cui pensare, il papà lavora la terra anche lui, magari il pezzettino che gli lasciò il nonno (se la banca non se l’è mangiato), ci sono i ragazzi da mantenere all’università, le medicine da ritirare in farmacia giù in città, la scuola del nipotino che quasi mai è vicina, gli animali cui badare.

Intanto, a furia di conquiste sociali, a forza di sfornare figli medici, ingegneri e avvocati, non è rimasto più nessuno a perpetuare la tradizione e la terra rischia di andare in malora. È un problema serio, anche perché di solito compaiono strani acquirenti all’orizzonte (ma questa è un’altra storia). Non ce n’è uno sotto i 30 anni (neppure sotto i 40, a dire il vero) tra i lavoratori della terra. Eccezion fatta per gli stranieri: e questo è un gran problema per tutto il resto della nazione.

Trenta euro al giorno per tre mesi, domeniche comprese, fanno circa 2.700 euro, più o meno netti, una miseria secondo i nostri parametri “cittadini”. Che però è servita a donne come Antonietta Perna, di San Gregorio Magno, 52 anni di cui 37 passati nei campi, a portare due figli fino alla laurea, a curare un marito, a gestire una casa, i genitori e le poche relazioni sociali che restano a chi sa solo andare avanti e non ha tempo di guardare indietro. Prima di lei ha fatto così sua madre e prima ancora sua nonna. Invece sua figlia, ingegnere, probabilmente non sarà della partita.

Perna Antonietta di spalleCroce e delizia per l’Inps
«Il 7 settembre di ogni anno – dice a Tempi Antonietta – vado a piedi in pellegrinaggio al santuario di San Gerardo (provincia di Avellino, ndr). Passiamo tutta la notte in strada, ci mettiamo circa nove ore ma ci divertiamo, preghiamo e recitiamo il rosario durante il tragitto». Ecco, trovatela una così a Milano, a Firenze o anche a Salerno, Napoli e persino a Eboli. Una donna che si fa nove ore a piedi, di notte, magari dopo sei ore faticate sulla terra, e non per andare al centro Messegué ma al santuario di San Gerardo.

«Lavoro da quando avevo 15 anni», confida l’unica che riesce a rompere la naturale e dignitosa ritrosia di queste persone semplici. «Oggi ne ho 52, volevo pure andare in pensione, ma la legge è cambiata, purtroppo». Antonietta sa che di donne come lei non ce ne sono più in giro. È l’unica italiana su circa 250 operai in forze nell’azienda della famiglia Rago di Battipaglia, una delle più importanti e moderne, che a differenza di altre non ha avuto difficoltà a farci entrare per vedere tutto “sul campo”. «Sì, ora nella terra ci sono rimasta solo io», dice. E fino a quando intende lavorare? «Fino alle pensione, per ora mi pagano e mi mettono i contributi, così prendo la disoccupazione».

Eccola la parola magica, “indennità di disoccupazione agricola”, croce e delizia per l’Inps e per le casse pubbliche. Qualche migliaio di euro tutti insieme e l’inverno passa, forse si potranno perfino mettere da parte un po’ di spiccioli.

Tags: campiFamigliaikeapellegrinaggioperiferie esistenzialiriforma Fornerosalerno
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