Caro direttore, il caso Mantovani mostra che la battaglia giudiziaria si consuma in prima battuta sul piano mediatico, a scapito della civiltà giuridica e della tenuta sociale e democratica del nostro Paese, caratterizzato da due pessime abitudini: è quello in cui si emana prima (sostanzialmente subito) un pressoché inappellabile giudizio di colpevolezza contro gli indagati ed è anche quello nel quale la giustizia procede con maggiore lentezza, così da consentire che si sedimenti un giudizio negativo nei confronti della persona sottoposta a procedimento giudiziario, ma anche che tale procedimento provochi al povero disgraziato più danni possibili.
Mario Mantovani – come già altri prima di lui (si ricordi l’anno scorso, Claudio Scajola) – è stato arrestato “in favore di telecamera” per la serie, come si sarebbe detto una volta, «sbatti il mostro in prima pagina».
Il senatore, una vita nel sociale a favore degli ultimi, una storia di successo da imprenditore sociale mai macchiato dall’ombra di uno scandalo (ad esempio episodi di violenza, maltrattamenti, furti, nelle case di riposo che aveva contribuito a fondare tra gli anni ’80 e ’90), è stato ritratto da Gian Giacomo Schiavi sul Corriere della Sera in un modo che non soltanto non ha nulla a che fare con l’essenza del giornalismo, fare informazione separando i fatti dalle opinioni, ma che chiaramente ignora la deontologia professionale e financo il buon vecchio buonsenso.
Alla richiesta di arresto, sul piano giudiziario e comunicativo, il senatore Mantovani poteva rispondere in due modi: mostrandosi aperto nei confronti degli inquirenti, con un atteggiamento aperto e collaborativo, oppure chiudendosi in un comprensibile riserbo, presentandosi quindi all’interrogatorio di garanzia rifiutando nettamente l’appropriatezza dell’inchiesta e dell’arresto, avvalendosi della facoltà di non rispondere e rinviando al tribunale del riesame la decisione sulla sua remissione in libertà.
Ecco, Mantovani ha scelto la prima strada, come a voler dire ai magistrati: «Potete aver inteso certi indizi nel modo sbagliato ma chiarisco tutto, vi fornisco alcuni elementi per fare chiarezza e altri avrò modo di portarli alla vostra attenzione nelle prossime settimane».
L’arresto aveva suscitato, come è noto, numerose prese di distanze e perplessità da parte di autorevoli operatori del diritto, non soltanto avvocati, e quindi poteva apparire nell’ordine delle cose che in pochi giorni Mantovani e le altre tre persone coinvolte finissero quanto meno agli arresti domiciliari. Ha detto ad esempio l’ex presidente dell’unione camere penali, Vinicio Nardo: «È una cosa eccessiva anche rispetto alla prassi; gli impegni di lavoro del Gip non giustificano questo lasso di tempo tra la richiesta di arresto e l’ordinanza. D’altronde, più tempo passa più vengono meno le istanze alla base del presupposto della custodia cautelare, vale a dire il pericolo di reiterazione del reato, l’inquinamento delle prove e la fuga all’estero».
Di fronte all’atteggiamento aperto di Mantovani e dei suoi legali, pm e gip hanno risposto picche, confermando l’irrituale detenzione, ma in un modo che non deve passare inosservato. La gip, Stefania Pepe, è entrata nel merito di due aspetti caratterizzanti l’arrestato: «Resta comunque un influente politico a livello nazionale» e «conserva l’incarico di consigliere regionale».
Sarà mica un modo per dire – con raffinata tecnica comunicativa – che la posizione di Mantovani risulterebbe alleggerita se rassegnasse le dimissioni anche da consigliere regionale?
È qualcosa su cui riflettere, tanto più che proprio Mantovani non aveva perso tempo e si era in poche ore, già il primo giorno, autosospeso dagli incarichi di giunta.
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