«Perché il mondo non si indigna per ciò che accade in Armenia?»
Ero in Armenia nei giorni critici di questo settembre. A essere sul posto si rischia di fare come i turisti che quanto poco vedono tanto più parlano. Tuttavia ho avuto la grande opportunità di confrontarmi con una osservatrice acuta, una che aiuta a metterti nei loro panni, a capire la loro storica condizione, cosa che non sempre i resoconti dei quotidiani si ricordano di fare. La professoressa Viktoria Mangasaryan, filologa, docente di italiano alla Brusov State University di Yerevan. Gli accadimenti che vede attorno a lei li sa leggere in una prospettiva storica: da qui il suo sconforto.
«Ci risiamo», ci dice, «è come nel 1895 e nel 1915: allora nell’Armenia occidentale, oggi nell’Artsakh. E come allora, lo dicono le foto, subito radono al suolo i templi e le vestigia armene». Ma Pashinian, il presidente, che fa? «Lui è consapevole della debolezza militare del proprio Stato. I manifestanti chiedono una reazione militare che noi non siamo in grado di organizzare. Cadremmo dalla padella alla brace, come dite in Italia. Li ha visti anche lei i cimiteri dei villaggi: ognuno ha le sue tombe dei giovani morti nella guerra del 2020. Quattromila morti, ragazzi di venti e diciannove anni, vogliamo mandarne altri al macello?».
Settant’anni di Urss
C’è una contraddizione che colpisce in Armenia: una storia, una cultura, un’arte (che si esprimono persino in una raffinatezza nella bigiotteria e nei ricordini da turisti) alle quali fanno poi contrasto luoghi di povertà (sempre dignitosa, però) disordine e inquinamento che ti sembra d’essere nel terzo mondo. Come è possibile questo? Una probabile risposta è “settant’anni di Unione sovietica”.
Burocrazia e corruzione: due mali che hanno avvelenato l’Urss fino a provocarne l’implosione, poteva la piccola Armenia rimanerne esente? I missionari italiani ci raccontano della piaga dei furti («più della metà dei dipendenti ho dovuto licenziarli»), della inidoneità ad assumersi responsabilità di direzione («ho più di ottant’anni, vorrei lasciare ma non sappiamo a chi affidare l’ospedale»), dell’ottusità e inettitudine («se non me ne accorgevo, per soli pochi metri la fogna dell’ospedale non sarebbe stata allacciata alla rete») e soprattutto dei due livelli in ogni rapporto fra persone, ciò che si afferma pubblicamente e ciò che si pensa intimamente: devastante.
Cosa abbiamo fatto di male?
«Certo, l’Urss non è stato solo guasti, ci ha dato un lungo periodo di pace e stabilità e dal resto dell’Unione sono rimpatriati molti intellettuali armeni che tanto hanno fatto per dare lustro all’Armenia che vedete». Il rapporto col padre-padrone russo lo troviamo oggi in tanti aspetti. Per esempio, ci dice la professoressa, la presenza “protettrice”, in funzione di deterrenza antiturca, di un cospicuo contingente stabile in alcune città di confine: tremila nella sola Gyumri, la seconda città, e in tutto lo Stato sono 24 mila.
«Ora siamo schiacciati da tutti questi Stati attorno, solo la Georgia non ci minaccia. E Azerbaigian pretende pure una striscia di territorio per unire a sé il Nakhichevan! Perché il mondo sa indignarsi per molto di meno? Per i palestinesi, per i Saharawi, per un egiziano che studia a Bologna tutti scendono in piazza! Per noi no. Il papa irenicamente invita alla concordia fra le due parti, una rappresentazione simmetrica che non è la realtà: noi non aggrediamo nessuno, loro invece ci invadono e ci vogliono fisicamente eliminare. Quasi che ricade come una colpa il nostro passato, la nostra ricchezza culturale. Ma che abbiamo fatto di male per un tale destino? Non lasciateci soli: l’opinione pubblica mondiale può fare molto per condizionare i governi. Azerbaigian ha il gas, ha la forza, ma non ha la ragione».
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