Nella penosa diatriba che oppone cattolici nostalgici che non perdonano al Papa di chiedere perdono, e piccole frange di ebrei, mai sazi delle scuse ricevute, l’unica cosa sana da farsi è rituffarsi alle fonti. Non fosse altro per misurare la miseria ragionieristica che caratterizza questa dialettica rispetto alla potente positività che ha originato la lunga storia di cui noi siamo corpo. Naturalmente gli strumenti non mancano, a partire dalla Bibbia. Ma ci sono anche strumenti più estemporanei che è un peccato farsi scappare. Uno di questi è il libro scritto da un giornalista e saggista americano, Thomas Cahill, che negli Usa ha venduto 500mila copie e che qui da noi è arrivato lo scorso anno un po’ in sordina. S’intitola “Come gli Ebrei cambiarono il mondo” (Fazi editore, 28mila lire) e racconta in maniera sintetica e affascinante la Bibbia in prospettiva storica.
“Wayyelekh Avram”; “Abramo dunque partì”: incredibile che una vicenda destinata a cambiare il corso della storia e il destino del mondo inizi con la decisione un po’ folle di un uomo di seguire una voce misteriosa, di lasciare la città più ricca del mondo di allora, Ur, e di puntare verso una meta dai contorni quanto meno nebulosi: la terra di Canaan. Perché partì Abramo? Quale richiamo così potente lo indusse a lasciare un universo di certezze? Abramo, scrive Cahill, “era un uomo del Sumer. Dapprincipio il ‘dio’ per lui era poco più della statua di Lugalbanda per Gilgamesh (eroe-dio dell’epopea sumera, ndr) era dunque politeista… anzi è altamente improbabile che nel corso della sua vita sia diventato rigidamente monoteista: ma ciò che possiamo dire è che la relazione di Abramo con Dio divenne la matrice della sua vita, la grande esperienza che lo modellò”. Abramo parte perché è arrivato alla coscienza che Proprio-Colui-Che-Gli-Sta-Parlando è un Dio totalmente diverso dagli altri di cui si erano nutriti gli uomini sino ad allora: “invenzioni, misere proiezioni dei desideri umani”, scrive Cahill. Che poi immagina i pensieri di Abramo: “Solo questo Dio vale la mia vita (la vostra e quella di Isacco)”.
Il libro poi continua a raccontare questa storia come storia: la prospettiva è quella di rendere palese come la Bibbia rappresenti uno scarto decisivo nella vicenda umana. Per la prima volta l’uomo concepisce un racconto che ha uno sviluppo rettilineo e non più circolare: che parte da un punto e arriva a un altro invece che restare eternamente avvoltolato su se stesso. Per la prima volta la storia non è un accadere fortuito che non ha nessun rapporto con il divino, ma è il luogo dentro cui Dio si fa conoscere per portare l’uomo verso una Terra promessa. Per questo gli Ebrei cambiarono davvero il mondo. È bella la pagina in cui Cahill racconta del povero Mosé in difficoltà, nel deserto, che non riesce a governare il flusso di richieste, lamentele che facevano tutte capo a lui: il popolo infatti era alquanto arrabbiato (ma non stavamo meglio in Egitto?). Arrivò il suocero e lo aiutò a studiare un’organizzazione in base alla quale le questioni minori venivano delegate a dei sottoposti. E solo quelle grandi arrivano al suo giudizio: era nata la prima struttura aziendale della storia.