Perché Orbán ha vinto di nuovo le elezioni (e tanti non lo accettano)
Provare ad analizzare la quarta vittoria alle elezioni politiche ungheresi di Fidesz, il partito conservatore del premier Viktor Orbán, senza parlare di sconfitta della democrazia e trionfo del putinismo sembra essere esercizio complesso. La maggioranza dei media occidentali, dopo avere dato Orbán prossimo alla sconfitta per settimane, commenta la sua vittoria facendo quello che è solita da fare quando il voto non va come previsto: ripete che gli elettori non hanno capito e hanno sbagliato, tratteggia il vincitore in modi grotteschi e caricaturali, lancia l’allarme, parla di «giorno buio per la democrazia e l’Europa», chiede che il voto sia annullato, prepara il prossimo capro espiatorio.
Le colpe dell’opposizione nella sconfitta
Come è possibile, si chiedono, che mentre un popolo – quello ucraino – muore per difendere anche la possibilità di abbracciare i valori occidentali, un altro – quello ungherese – vota per chi quei valori occidentali li guarda con sospetto? Il fatto da cui partire è la percentuale di voti raccolta da Fidesz: oltre il 53 per cento. L’opposizione si è fermata al 35. Orbán ha preso più voti di quattro anni fa, nonostante i suoi oppositori si fossero messi tutti insieme per sconfiggerlo, e gli analisti di politica estera fossero abbastanza certi di una sua disfatta (in quel caso la democrazia avrebbe trionfato). Satrapo, dittatore, leader autoritario votato da un popolo di ignoranti, queste le analisi che leggeremo oggi sui giornali.
«Forse dovrebbero provare a dirlo ai milioni di persone che hanno votato per Orbán», scrive sullo Spectator William Nattrass. «È chiaro che in Ungheria sta succedendo qualcosa che le forze del liberalismo internazionale non capiscono». E non è la prima volta. L’opposizione in Ungheria ha gettato le basi per la propria sconfitta passando le ultime settimane a denunciare brogli preventivi (toh, come Trump in America) e accusare la nuova legge elettorale di favorire Fidesz.
Quanto è putiniano Orbán
Come nota ancora il giornalista dello Spectator, i partiti di opposizione erano uniti soltanto dall’odio per Orbán, e da una sola proposta politica: l’allineamento “leale” con l’Unione Europea per “ristabilire la democrazia”. Non solo, con lo scoppio della guerra in Ucraina il partito di Orbán è stato descritto come un cavallo di Troia del Cremlino, e il premier come un putiniano sdraiato sulle posizioni di Mosca. Gli elettori saranno anche stupidi, ma in un paese come l’Ungheria, invaso dai carri armati sovietici poco più di mezzo secolo fa, la gente sa che l’Ungheria non è la Russia. Analizzare il voto in un paese con quella storia con le sole lenti del liberalismo occidentale fa perdere il punto della questione.
Con la tipica retorica sovranista Orbán ha detto di avere confitto «la sinistra in patria, la sinistra internazionale, i burocrati di Bruxelles, l’impero di Soros con tutti i suoi soldi, i media mainstream internazionali, e alla fine, anche il presidente ucraino», ma è vero che «i messaggi messianici dell’opposizione sul “ripristinare la democrazia” e l’allontanarsi dalla Russia», scrive Nattrass, «sono stati una cattiva scelta perché gli ungheresi, come la maggior parte dei centroeuropei, non vogliono essere salvati dai loro politici. Il comunismo del ventesimo secolo ha lasciato le persone in questa regione profondamente sospettose nei confronti degli ideali politici utopici. La maggior parte non vuole un’utopia socialista, o un’utopia di “valori europei”: vogliono pragmatismo, positività e rispetto per la tradizione».
La posizione ambigua con Mosca
Resta la posizione ambigua di Orbán nei confronti di Mosca, però. Budapest non ha inviato armi all’Ucraina e non ha permesso alle armi di altri paesi di transitare dall’Ungheria, ma anche se si rifiuta di condannare ufficialmente la Russia, non si è opposto alle sanzioni Ue contro Mosca, resta nella Nato e accoglie 400 mila profughi ucraini in Ungheria. L’ambivalenza di Orbán rischia di essere pericolosa, in questo momento, e condannabile agli occhi di chi si oppone all’invasione russa in Ucraina, ma non si spiega dando del putinista a Orbán. Secondo diversi sondaggi, quasi tutti gli ungheresi si schierano con l’Ucraina contro la Russia, ma una grande maggioranza di loro non vuole che l’Ungheria venga coinvolta nella guerra.
Scrive nella sua List Mario Sechi: «Orbán nelle cronache in puro ciclostile viene ritratto come un satrapo, della sua storia viene regolarmente omessa la biografia di un dissidente del comunismo, il suo discorso del 1988 contro Mosca e la richiesta di mandare via dal suo paese le truppe dell’Urss morente, viene dimenticato il fatto che fu nel gruppo dei liberali e per anni è stato un partner del Partito popolare europeo, nel buio è finito il fatto storico che Angela Merkel lo criticava ma nello stesso lo rispettava perché (da donna che aveva vissuto nella distopia della Germania Est) conosceva la storia dell’Ungheria».
Putin ha un alleato a Budapest?
«Bastano questi pochi elementi», continua Sechi, «per comprendere la schiacciante vittoria di Orbán e le ragioni per cui questo leader conservatore si mostra prudente con Mosca, ecco perché è contrario al passaggio di armi dall’Unione Europea all’Ucraina, perché non ha nessuna simpatia (ricambiata) per l’escalation del conflitto che invece cerca Zelensky, perché l’asse del politicamente corretto brussellese lo odia (ricambiato), perché la sua riconferma è una sorpresa solo per chi non guarda i dati della storia di ieri e di oggi. Putin ha un alleato? No, a Budapest c’è un leader che ha un minimo di memoria storica e ricorda cosa fosse la vita sotto il comunismo, a Orbán basta guardare il conto energetico (dipende completamente dal gas di Mosca) per capire che un’escalation porterebbe il suo paese alla rovina, il caos è questione di un attimo. Non solo in Ungheria».
Ecco perché la rielezione, annotava Lodovico Festa nella sua rassegna quotidiana di notizie su Tempi ieri, non è per forza una cattiva notizia: «La vittoria di schieramenti aperti a un dialogo con Mosca sia in Serbia sia in un’Ungheria, dove peraltro il ricordo dell’invasione sovietica del 1956 è ancora ben vivo, dovrebbero far riflettere su quel che sta succedendo in tante parti dell’opinione pubblica mondiale. Non si tratta di cedere alla politica di potenza russa, condita di atrocità, ma di capire le dialettiche che si sono globalmente messe in movimento e che non si possono ridurre a uno scontro tra autocrazie e democrazie».
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