“L’Italia è un Paese libero ma esiste l’omofobia e chi ha questi atteggiamenti deve fare i conti con la propria coscienza”. Sono le parole scritte dal ragazzo che si è suicidato a Roma sabato notte.
Nell’opinione comune il suicidio viene considerato come l’estrema conseguenza di un dolore troppo grande da sopportare. Il suicida è una vittima innocente e le ragioni del suo gesto sacrosante, soprattutto quando si tratta di strumentalizzarle per i propri obiettivi politici.
Anch’io ho pensato più volte al suicidio. Non l’ho mai tentato.
Ogni volta che i giornali parlano di un ragazzo omosessuale che si toglie la vita, penso a quell’angoscia che ho provato anch’io. E’ un desiderio di scomparire, di non esistere più. In particolare penso al suicidio di una persona a me estremamente vicina. Ricordo benissimo che quando avvenne ero anch’io tormentato dallo stesso desiderio, farla finita. Ricordo che ne avevo appena parlato ad un sacerdote. Il giorno successivo quando ricevetti la notizia, mi crollò il mondo addosso, e pensai che inevitabilmente sarei morto così anch’io. Poche ore dopo la notizia, sul luogo del suicidio, mi sembrava di sentire nell’aria l’odore di quella violenza (forse del sangue o del piombo) che aveva travolto la mia famiglia. Tutti tentavamo di trovare una giustificazione, qualcosa che lenisse il dolore di quel pugnale nell’anima, ma io non riuscivo a non considerare quel gesto come un estremo capriccio, una chiusura prepotente su di sé, un atto sprezzante verso coloro che amavano questa persona. Un’infamia troppo grande per chi doveva continuare a vivere.
Ero stato battuto sul tempo e potevo vedere davanti a me le reali conseguenze del gesto che avrei voluto compiere.
Forse sono troppo codardo per suicidarmi. A spaventarmi è quel lasso di tempo, anche rapido, che intercorre tra il gesto finale e la morte. La mia fede nell’eternità inoltre è sempre stata un deterrente efficace.
Sono stato vittima di omofobia, ma non ho mai pensato di uccidermi per questo. Non è il fatto di essere omosessuale, certo quando uno scopre di esserlo è una tragedia. Tante volte l’omosessualità nasce proprio dal disprezzo di sé, dal rifiuto di identificarsi con la propria identità maschile che si percepisce come negativa. Si ha paura di essere maschi e dei maschi. Fondamentalmente ci si ritiene inferiori.
Nella mia vita però ciò che mi ha spinto alla disperazione è stato il modo di vivere la mia omosessualità: la compulsività, le abitudini sessuali occasionali e perverse che mi hanno fatto perdere completamente la dignità. I miei tentativi di risalita vanificati costantemente dalla mia debolezza e allo stesso tempo, la paura ad andare fino in fondo nel bene o nel male. La sensazione che la mia vita fosse imbrigliata in una camicia di forza dove non potevo essere né migliore né peggiore, né santo né peccatore, né realizzato né fallito. Essere vincolati nella mediocrità è peggio di un fallimento. In quei momenti ero convinto che nessuno potesse aiutarmi, nemmeno Dio, che anzi percepivo all’apice della mia disperazione, come un grande avversario, che pretendeva da me ciò che non riuscivo a fare, che mi metteva alla prova infierendo sulla mia sofferenza. Non riuscivo nemmeno a rivolgermi alle persone che mi volevano bene davvero. Mi blindavo in una disperazione talvolta rabbiosa, in un limbo peggiore persino dell’inferno.
“L’Italia è un Paese libero ma esiste l’omofobia e chi ha questi atteggiamenti deve fare i conti con la propria coscienza.”
Trovo il suicidio un’ingiustizia. Un ragazzo che si toglie la vita perché vittima di omofobia, non dà forza a chi sostiene che la società sia intollerante, piuttosto ribadisce che la società non dà gli strumenti ai giovani d’oggi, e non solo a loro, per affrontare le difficoltà, per trovare una speranza, una motivo per continuare a vivere.
Che un ragazzo romano di 21 anni scriva queste parole mi fa pensare che sotto le ragioni dichiarate del suo gesto estremo ci sia dell’altro. Roma non è certo omofoba! Basta girare nel centro della città per rendersene conto, e se non fosse sufficiente, allora vi invito a fare un giro, la sera, davanti al “Coming Out”, il ritrovo dei gay per eccellenza, vicino al Colosseo. C’è talmente tanta gente che il locale sembra preso d’assedio. Roma è inoltre la città delle manifestazioni. Per un giovane che crede in un Italia differente non è difficile impegnarsi in una fervente lotta politica e sociale. Ancora, con l’avvento dei Social Network mi sembra davvero difficile che un ragazzo non riesca a crearsi un giro di amicizie alternativo. Non stiamo parlando di un ragazzino delle medie o delle elementari, ma di un ragazzo di 21 anni.
Di omosessuali felici ce ne sono. Alcuni mi scrivono. Credo che in questo possiamo essere tutti d’accordo. Nessun omosessuale deve smettere di cercare la sua felicità. Sia che voglia vivere la sua sessualità serenamente, sia che voglia ritrovare la sua identità naturale. Per entrambi oggi è possibile trovare una strada, certamente impervia, come tutte le strade che portano alla felicità.
Chi si suicida ha deciso invece che non ci sono più vie d’uscita per la sua vita. Mi sembra una presunzione. Anche non ce ne fossero realmente, trovo che non ci sia giustificazione per un gesto, che si può comprendere, ma non accettare. Ed è giusto dirlo! Per non diffondere l’idea sbagliata che chi si uccide, in fondo, non aveva tutti i torti!
Ho pena del ragazzo che si è ucciso, non per le ragioni che l’hanno spinto a farlo, ma perché non ha trovato altra via d’uscita per la sua anima che quella di strapparla con forza da sé. Sono vicino ai genitori e agli amici di questo ragazzo, perché stanno vivendo un dolore atroce. A loro ed a tutti i ragazzi che sono disperati, vorrei dire che la depressione e la disperazione nella vita di ogni uomo sono sempre in agguato, ma non dobbiamo lasciarci rubare la speranza. Oltre la notte c’è un sole che sorge, sempre! L’amore, la felicità e la bellezza non sono concetti astratti, ma reali, vivi, destinati a salvare il mondo dall’ingiustizia e dal dolore.
Tratto dal blog di Eliseo del Deserto