L’anomalia italiana sta finalmente per essere risanata. Sarà la legge sulla par condicio, in discussione in questi giorni alla Camera, a risolvere secondo la definizione di Veltroni il vero problema italiano: gli spot elettorali. E a sostegno del decreto legge, che prevede il divieto per le emittenti nazionali di trasmettere spot in campagna elettorale mentre al di fuori di esse saranno consentiti solo se esporranno un “argomento compiuto” e “senza slogan”, l’Osservatorio di Pavia nei giorni scorsi ha diffuso alcune rilevazioni che dimostrerebbero come Forza Italia sia il partito più presente sugli schermi degli italiani con Berlusconi che, addirittura sopravanza il presidente del Consiglio Massimo D’Alema: 832 minuti contro 588.
“Questi dati in realtà – spiega Daniele Capezzone, responsabile informazione del partito radicale – si riferiscono solo agli ultimi tre mesi del ’99 e si limitano a sommare i minuti in voce in tutte le trasmissioni, di ogni genere e tipo, andate in onda. Senza alcuna distinzione. Per il resto l’Osservatorio di Pavia non indica nemmeno i criteri di analisi utilizzati. Si tratta, perciò, di rilevazioni poco attendibili”.
Nemmeno Paolo Romani, responsabile informazione di Forza Italia sembra convinto dei dati dell’Osservatorio di Pavia: “In precedenza D’Alema arrivava già a 1500 minuti, com’è possibile che ora sia retrocesso a 500? I dati in possesso alla commissione parlamentare di vigilanza sono molto diversi: parlano di 5000 minuti per i Ds e 1500 per Forza Italia. Inoltre, Berlusconi è certamente molto presente sugli schermi, ma è l’unico di Forza Italia. Tra ministri e sottosegretari qual è la presenza delle forze di maggioranza? Infine come sono stati calcolati quei dati: 5mila minuti al Tg1, considerato dal 99% degli italiani degno di fiducia, valgono molto di più di 5mila ipotetici minuti di spot”.
Insomma, questa par condicio porterà davvero pari condizioni per tutti allineandoci al resto d’Europa? “Una legge – continua il radicale Capezzone – che vuole negare gli spot se non confinati in spazi ghetto come quelli già esistenti delle dichiarazioni di voto, è una legge liberticida: il candidato che passa per diciassettesimo con il suo filmato da 1 a 3 minuti, o si suicida in diretta o non ha alcuna speranza di esser visto. Che nel resto d’Europa gli spot siano vietati è, inoltre, una vera falsità. Francia a parte, dove vige una legge molto restrittiva, negli altri paesi, pur con legislazioni diverse, sono ammessi ovunque. Per non parlare degli Stati Uniti dove addirittura il candidato Forbes oltre che negli spot elettorali compare anche in uno spot commerciale. L’anomalia semmai è quella di un governo che gestisce tre canali televisivi pubblici, legittimata da un’opposizione che a sua volta dispone di tre tv. A tutto discapito delle forze minori”. “Questo è il punto – insiste il forzista Paolo Romani – Il governo ha in mano l’informazione della tivù di stato e spesso si assiste a un Tg1 che ridimensiona le notizie scomode, come quelle dello scandalo Arcobaleno”.
Un esempio di tiggì pubblico: il caso Arcobaleno e Castagnetti In effetti, la vicenda Arcobaleno rappresenta una significativa spia della salute dell’informazione pubblica pagata, a differenza delle tv Mediaset, da tutti gli italiani attraverso il canone Rai. Inviato a Bari a raccontare per il Tg1 lo scandalo Arcobaleno è Leonardo Sgura, giornalista proveniente dalla sede di Bari assunto da pochi mesi, scavalcando precari storici che aspettavano l’assunzione da anni. Intimo del sindaco di Gallipoli Fasano, a sua volta amicissimo di D’Alema, Sgura per molti anni ha lavorato tra Brindisi e Gallipoli diventando, pare, il cronista più considerato nelle procure pugliesi. Esperienza che oggi gli consente di seguire l’inchiesta Arcobaleno della procura di Bari con tanta cautela da far sospettare all’onorevole Romani il tentativo di ridimensionare una vicenda che rischia di allargarsi anche ad altre operazioni umanitarie e di diventare imbarazzante per il governo, che della missione in Albania aveva fatto, come ama ripetere D’Alema, il suo “fiore all’occhiello”. Alle accuse il direttore del Tg1 Giulio Borrelli ha ribadito di aver raccontato con obiettività la vicenda dando notizia anche delle indagini e degli incontri tra i magistrati di Bari e Perugia, ma Romani ribadisce a Tempi: “Borrelli fa un bel discorso generale, ma nello specifico non spiega che il servizio è stato costruito in modo che non si capisse il motivo per cui i magistrati si sono incontrati ovvero per parlare del possibile allargamento dello scandalo Arcobaleno anche al terremoto in Umbria”.
Altro episodio recente che ha fatto infuriaremolti è quello della presunta aggressione al segretario popolare Castagnetti, poi smentita anche dalla popolare Roberta Ercoli, consigliere regionale del Lazio. In proposito Forza Italia aveva immediatamente diffuso un video che smentiva il fatto, ma il Tg1 quella sera mandò in onda il filmato solo a frammenti, rendendolo incomprensibile e alternandolo a interventi, senza replica, di esponenti della maggioranza.
Una gestione dell’informazione, cosiddetta pubblica, in molti casi anomala, quindi, ma non inspiegabile. Se nelle famigerate reti berlusconiane (che, ricordiamo, sono comunque private), infatti, molti dei posti di comando sono ricoperti da uomini dichiaratamente di sinistra (Giorgio Gori direttore di Canale 5, lo stesso Enrico Mentana direttore del Tg5, Maurizio Carlotti, ex Pci e amministratore delegato di Mediaset) e Maurizio Costanzo, consigliere per la comunicazione dell’Ulivo è l’amministratore delegato di Mediafiction, la mappa del potere in Rai illustra quella che potremmo definire la vera anomalia italiana: un governo che (unico caso nel mondo occidentale) controlla e gestisce tre reti televisive pubbliche. Vediamo come.
Il Tg1 di Borrelli, il veltronian-dalemiano Veltroniano di vecchia data, Giulio Borrelli si è avvicinato a D’Alema con l’avvento del nuovo presidente Rai, Roberto Zaccaria (Ppi) e del dalemiano direttore generale Pier Luigi Celli. Al recente congresso diessino del Lingotto, dove lui stesso è stato ospite per tre giorni senza produrre alcun servizio per il suo tiggì, ha condotto una pattuglia di giornalisti (Donato Bendicenti, Andrea Montanari e David Sassoli) di esclusiva e stretta osservanza diessina: un ossequio al maggior partito di governo che in Rai nessuno ricorda neanche ai tempi della tivù democristiana di Bernabei. Narrano le cronache che al congresso Ds Borrelli si sia proposto come punto d’incontro tra Veltroni e D’Alema, ritenendo ormai di impersonare il punto di equilibrio raggiunto a Torino dai due leader.
I vicedirettori di Borrelli sono: Mauro Mazza e Alberto Maccari entrambi in quota Polo, Mario Meloni storico diessino Rai e Lamberto Sposini, vicedirettore senza incarichi operativi di direzione, ma con il ruolo di conduttore e responsabile degli speciali. Di Sposini è nota la confidenza con Veltroni e si ricorda la sua straordinaria conduzione alla convention dell’Ulivo nel ’96. In realtà, spiegano i boatos di corridoio (sempre più frequenti dal momento che ormai anche redattori di sinistra storici come Lilli Gruber stanno prendendo le distanze dal direttore), i vicedirettori non hanno alcun potere decisionale visto che il telegiornale è totalmente gestito dal direttore che sceglie i titoli, gira e taglia i servizi a suo piacere. Uno degli ultimi fedelissimi di Borrelli è David Sassoli elevato al ruolo di “factotum” cui affidare tanto i servizi di colore che quelli di cronaca e politica. Un factotum, naturalmente ligio alle disposizioni del capo al punto da mandare fuori dai gangheri perfino l’Asinello Arturo Parisi che ha definito alcuni servizi televisivi sul congresso Ds “degni dei Film Luce”.
Il T3 del popolare (e traballante) Chiodi Ennio Chiodi, direttore del T3, è invece in quota Ppi, ma la sua poltrona sembra la più traballante. Anche Paolo Ruffini, direttore del Giornale radio (da cui dipende tutta l’informazione radiofonica), infatti, è in quota ai popolari considerati quindi sovrarappresentati. Tanto più che l’ormai certa riconferma dell’attuale consiglio d’amministrazione, comporterà una ridistribuzione degli incarichi a vantaggio dei partiti di maggioranza (Democratici, Udeur, Rifondazione…) in esso non rappresentati: toccherà, quindi, al Ppi cedere o la direzione del T3 o quella del Tgr. E il più a rischio sembra proprio Chiodi dal momento che Ruffini è uomo molto vicino al presidente del Senato Nicola Mancino.
Tra i numerosi vicedirettori, a parte Angelo Belmonte (Polo), il T3 annovera solo uomini vicini ai Ds. Un’occupazione che si sta allargando ai caporedattori delle sedi regionali, posti chiave per il collegamento con la sede centrale di Roma.
Il Tg2 di Mimun Dell’attuale direttore del Tg2 Clemente J. Mimun si dice che aspiri a diventare direttore della Rete 2 al posto di Carlo Freccero, diessino ma caduto in disgrazia perché considerato troppo costoso e poco produttivo. Teoricamente Mimun sarebbe il direttore in quota Polo. Ma certo il Tg2 non si può definire una “Telekabul”, come veniva definito il Tg3 di Sandro Curzi e Corradino Mineo, in versione polista. Semmai ha più l’aspetto di un rotocalco, frizzante, apprezzato per i servizi di costume, magari, come si dice, “con molto Berlusconi dentro”, ma soprattutto di nessun disturbo per il manovratore. Una linea indolore verso il governo, ma non senza tensioni all’interno: i giornalisti che hanno provato a contrapporsi al direttore si sono visti costretti a lasciare la testata, come Raffaele Genà passato al Tg1, Guido dell’Aquila ora caporedattore al giornale radio e Roberto Amen passato a Rai International. Inconvenienti della par condicio.