In Gran Bretagna non esiste l’“identità personale” e non esistono di conseguenza le “carte di identità”. I cittadini britannici non solo vivono benissimo senza, ma giudicherebbero fascista l’idea di introdurle. E più che rovesciare il governo che si azzardasse a farlo renderebbero la legge nulla, di fatto, non osservandola, come già fecero durante la guerra, quando, con buone ragioni, ci si provò a introdurla. Lo so che per gli italiani abituati alla burocrazia più assurda – ricordo bene quando mio padre, anche per ritirare la pensione di persona, doveva produrre un certificato di esistenza in vita – la cosa pare impossibile. Eppure è cosi, nome e cognome qui non sono per la vita. Se si vuole il passaporto la prima volta si deve produrre il certificato di nascita e in seguito si può cambiare nome e cognome, anche perché abitualmente le donne prendono il cognome del marito anche quando, dopo un divorzio, si risposano. Sempre che vogliano. Altrimenti possono mantenere il proprio, o cambiare nome e cognome per questioni di moda o di sfizio. Il modulo si ritira all’ufficio postale e lo si invia compilato con due foto all’ufficio passaporti (uno solo per tutto il Regno Unito), indicando nella domanda la data entro cui si intende compiere il viaggio e dunque lo si vuole ricevere a casa: lo si vedrà arrivare per posta un paio di giorni prima della prefissato tour all’estero. “Polizia”, “questura”, “residenza”, “controlli”… in Inghilterra sono parole prive di senso. Le patenti non hanno foto e l’unica cosa che vagamente rassomiglia a una nostra identità è l’equivalente del nostro codice fiscale, senza foto, che si riceve alla fine della scuola dell’obbligo a 16 anni e non muta mai anche se se si cambiano nome e cognome. Ci sono comunque situazioni in cui viene richiesta la prova della propria identità (ad esempio per diventare membri delle biblioteche pubbliche) . In questi casi però viene accettata una carta di credito, una vecchia busta con nome e indirizzo corrispondenti a quelli dichiarati, una bolletta della luce o del gas. Inoltri una domanda di lavoro? Il candidato non deve produrre nessun certificato di diploma o laurea, deve limitarsi a dichiararli. Starà al datore di lavoro a informarsi discretamente – se lo ritiene il caso- della veridicità della dichiarazione. Le poche volte che un certificato è richiesto si produce l’originale (e unico) che viene visionato o raramente fotocopiato. L’autenticazione di una firma o di un certificato è pratica sconosciuta e provoca reazione di ilarità o perplessità se richiesta. Una volta dovevo far autenticare la mia firma e, essendo alla fine di una gravidanza, non volevo spostarmi da Cambridge. Non sapevo come fare. Presi un appuntamento dal notaio di fiducia di mio marito, ma non riuscii a fargli capire che cosa volevo e ancor meno a convincerlo ad accontentarmi. Doveva autenticare la mia firma? Dire cioè che la firma fatta da me era fatta da me? E perché mai non potevo farlo io? E in ogni caso essendo che avevo firmato che bisogno c’era di dimostrare che l’avevo fatto? Prendete la patente di guida. A parte il fatto che in Inghilterra non è mai esistito il concetto del “bollino” annuale, quando rinunciai a quella italiana per quella britannica scoprii non solo che non si pagava nessuna tassa annuale, ma che quando una persona ha superato l’esame, a17 anni compiuti, riceve una patente che se non incorre in nessuna sanzione, è valida fino ai 70 anni. Non solo, essa non va portata nel portafoglio perché nessun poliziotto può chiedere arbitrariamente di vederla. Se una persona è fermata deve recarsi alla stazione di polizia per mostrarla. Però, nel caso di infrazione, è molto facile collezionare punti negativi che possono portare a perderla. Mio marito comunque in tutta la sua vita non ha mai dovuta mostrarla a nessuno e ancora ricorda lo shock di quando per la prima volta in Italia, pur sapendo di non aver commesso nessuna infrazione, fu fermato e costretto a mostrare i documenti a due carabinieri con mitra spianato e aria minacciosa. Credeva ci fosse stato un colpo di stato.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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Emanuele Boffi