Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – La Russia, il paese più millenaristico della Terra, si scopre ritornata “santa” e guidata da un leader dagli occhi di ghiaccio e con un passato – come direbbe John Le Carré – di “uomo venuto dal freddo”, una spia, un agente del Kgb. Putin è apparso dal nulla, estratto dal cilindro di Eltsin quando quest’ultimo dovette cedere il passo a causa degli scandali che hanno travolto la sua famiglia e di un drammatico crollo fisico che si era abbattuto su un corpo già debilitato dall’alcol. Putin si è affacciato sulla scena di una nazione-continente – metà europea e metà asiatica – che, stremata dall’assalto degli oligarchi, non aveva più fiducia nelle libertà occidentali e nelle virtù salvifiche del libero mercato, e lo ha fatto con un ambizioso programma per la ricostruzione dell’economia e del perduto prestigio internazionale.
Inoltre Putin si è assunto la responsabilità di rigenerare l’identità russa, un’identità in cui sono giustapposti Pietro il Grande, Caterina e Nicola II, le armate controrivoluzionarie, Stalin e l’Armata rossa, la grande guerra patriottica e il Kgb. Lui stesso è apparso come uno nuovo zar che, come ha scritto Fernando Mezzetti, conosce «i suoi protetti, tutti, dal primo all’ultimo e di tutti salva qualcosa».
Abbiamo chiesto a Sergio Romano, che al politico russo ha dedicato il suo ultimo volume Putin e la ricostruzione della grande Russia (Longanesi), di aiutarci a decifrare questa figura così centrale negli equilibri geopolitici attuali.
Ambasciatore, come definirebbe la leadership di Vladimir Putin?
Putin è un nazionalista, con una certa inclinazione all’esercizio autoritario del potere; ma ciò non deve stupire in un paese come la Russia che non si può certo governare senza un centro forte. Nella storia di questo paese-continente non è una novità. Nella costruzione della sua leadership ha avuto il determinante sostegno da parte delle agenzie di intelligence, dai cui ranghi proviene. Comunque siamo in una situazione profondamente diversa dal vecchio regime comunista, a differenza dei cittadini sovietici, i russi possono ora viaggiare e accedere a diverse fonti di informazione.
Cosa ci può dire della simpatia di Donald Trump nei confronti del suo omologo russo?
Donald Trump vorrebbe trattare solo con persone che hanno realmente il potere e che possono esercitarlo nel senso più ampio. Con loro (a differenza delle leadership espressioni delle democrazie liberali) sente di poter concludere un accordo duraturo, quello che lui, mutuando dal gergo affaristico, chiama deal: non a caso uno dei suoi libri di maggior successo si intitola L’arte del deal; ma al momento, sotto la spada di Damocle dell’impeachment, Trump deve essere cauto nel manifestare questa sua simpatia nei confronti di Vladimir Putin.
Questo ci permette di introdurre il tema della russofobia.
Oggi, soprattutto negli Stati Uniti e nei paesi dell’Europa orientale è molto facile dipingere la Russia di Putin come una nazione aggressiva e revanscista. E ciò a differenza degli anni del secondo conflitto mondiale quando l’Unione Sovietica di Stalin diede un contributo importante, se non decisivo, alla vittoria sul nazismo. Sinceramente trovo le paure attuali infondate ed esagerate e al contrario non tengono conto che l’allargamento a est della Nato – alleanza politico-militare costituita per fare la guerra – ha di fatto superato non solo la zona d’influenza dell’ex Patto di Varsavia ma gli stessi confini dell’Unione Sovietica con tutto quello che ne consegue. Mi stupisce in particolare l’atteggiamento di alcuni paesi scandinavi che hanno totalmente abbandonato il loro tradizionale neutralismo. Mi riferisco alla Svezia e alla Finlandia. È vero che in un passato (più remoto per la Svezia, più recente per la Finlandia) entrambe hanno combattuto contro la Russia, ma non pensavo che questa eredità storica avesse la capacità di condizionare il loro attuale atteggiamento.
Qualche giorno prima delle ultime elezioni tedesche, il New York Times si è interrogato sull’assenza della Russia dall’attuale dibattito politico in Germania.
La signora Merkel non rinuncerà a quanto costruito dal suo predecessore Gerhard Schröder, a cui si deve la realizzazione della grande infrastruttura energetica Nord Stream, che i tedeschi, nonostante le sanzioni, vorrebbero raddoppiare. Una contraddizione esiste nel rapporto tra Berlino e i paesi dell’Europa orientale: la Germania non vuole arrestare la propria espansione verso est e in questo senso ha avuto un ruolo fondamentale nel determinare l’allargamento voluto da Romano Prodi. Oggi questi paesi fanno parte della filiera del valore del sistema produttivo tedesco ma sono ostili a Mosca, da qui le difficoltà della classe dirigente tedesca nel mantenersi in equilibrio tra queste sue due priorità geostrategiche.
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