Noi, stirpe di africani italiani

Di Rodolfo Casadei
04 Marzo 2017
Nel continente nero non è inusuale incontrare persone che dal Belpaese sono tornate nella terra natia. Orgoglio e dilemmi di una comunità in bilico tra il rimanere e l’affrontare il “Crossing Hell”

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti

DA BOUAKE’ (COSTA D’AVORIO). La Costa d’Avorio è un paese di musulmani, cristiani e praticanti delle religioni tradizionali, con una lieve prevalenza numerica dei musulmani, ma quello che potrebbe essere considerato il duplice simbolo della sua condizione e di quella che l’Africa nera considerata nel suo insieme vive oggi è la più pregnante delle sacralità cattoliche: il Santissimo Sacramento dentro alla cripta della basilica di Notre-Dame de la Paix a Yamoussoukro, più nota come la copia africana in scala maggiorata della basilica di san Pietro a Roma colonnato e piazza compresi; e lo stesso sacramento eucaristico custodito in un angolo della chiesa dedicata a san Camillo de Lellis costruita all’interno del Centro di accoglienza femminile per malate mentali che sorge dentro al recinto dell’ospedale universitario di Bouaké (Chu). Su tutto il pavimento della chiesa fin sotto al tabernacolo ligneo che ospita il corpo di Cristo sotto le specie del pane alloggiano una ventina di malate, per lo più sprofondate nel sonno dello sfinimento fisico e della pacificazione chimica da neurolettici. Tutta la navata e il transetto sono un succedersi di stuoie, bottiglie di plastica, sacchetti, ciotole, sandali ed esseri umani sdraiati dormienti, seduti a terra o in piedi immobili come statue, sparsi come in un Presepe. In fondo dietro all’altare effettivamente c’è una specie di capanna di assi e paglia che ha fatto da stalla della Natività nel periodo natalizio, e che adesso ospita alcuni cartoni di prodotti sanitari dono dell’Ordine di Malta. Sul rialzo al centro del transetto una donna con un abito rosso di viscosa è sdraiata quasi sotto l’altare, le braccia allargate come in una crocefissione, occhi aperti e sguardo al soffitto. Queste sono solo una porzione delle 128 donne che vivono attualmente nel centro, ma sono quelle che più danno l’idea di cercare e trovare protezione fra le braccia di Dio, essendo quella che gli uomini possono offrire permanentemente precaria.

Fuori, in cima al muro di cinta il reticolo del filo spinato percorre tutto il perimetro del centro. «Gruppi di delinquenti hanno cercato di abusare delle donne ricoverate scavalcando il muro di notte», racconta Maturé, un ex malato (uno «che si è ritrovato», secondo l’espressione qui in uso) il quale è diventato il vicedirettore del centro. «Erano armati di coltelli e mi hanno assalito in quattro», dice mostrando la cicatrice di un colpo che ha ricevuto sulla testa rasata. Come ha fatto a respingere quattro persone da solo? «No, non da solo: qui le donne picchiano eccome. Purtroppo qualche volta si azzuffano anche fra di loro. Comunque si difendono, non sono arrendevoli».
Fili spinati, grate, guardiani in divisa sono una costante dei panorami dell’Africa tanto quanto i baobab e i banani. La protezione che dovrebbero fornire le forze dell’ordine è aleatoria, e allora non resta che il fai da te e l’affidarsi a Dio. L’ultima grande retata della polizia, pomposamente denominata “reprise en main de la ville”, è culminata nel sequestro di un chilo e 350 grammi di hashish e nella denuncia a piede libero per detenzione di stupefacenti di sei studenti e quattro militari. In una città afflitta da furti, rapine e aggressioni sessuali, in buona parte compiuti da bande di ex combattenti della guerra civile del 2002-2007 diventati delinquenti. Giù nel sud a Bingerville, alle porte dell’ex capitale Abidjan, nottetempo una banda di una decina di persone armate di kalashnikov ha assalito un commissariato e razziato tutte le armi e le munizioni che ci ha trovato dentro.

La chiesa più grande del mondo
africa-chiesaSe il Santissimo nella chiesa dentro al centro di accoglienza della San Camillo de Lellis presso il Chu è il simbolo dei poveri che hanno come ricorso e difesa solo Dio e il coraggio che viene dalla rinnovata coscienza della propria dignità personale, quello che si adora presso Notre-Dame de la Paix a Yamoussoukro, il villaggio natale del primo presidente della Costa d’Avorio indipendente Felix Houphouët-Boigny che lo innalzò a capitale e ne fece una Brasilia africana, evoca inevitabilmente il pensiero che in Africa potere, forza e ricchezza sono uno spettacolo sotto gli occhi di tutti, ma la cui fruizione è riservata a pochi. La sterminata struttura, che non è fatta solo di piazza, colonnato e basilica, ma anche di 36 giardini stile reggia di Versailles disposti in parallelo lungo un vialone che porta agli edifici, si mostra disperatamente vuota. Le guide vantano 200 mila visite all’anno sommando insieme turisti e pellegrini, il che vorrebbe dire 500-600 visitatori al giorno mediamente. In realtà si fa fatica a pensare che in una giornata normale entrino nella basilica più di un centinaio di persone. Dell’esterno si può dire tutto il male possibile, come per il dispositivo di palme e banani di piazza Duomo a Milano: pacchiano, incongruo, fuori posto, ignorante, puerile, posticcia composizione di giganteschi Lego. Ma l’interno è qualcosa di assolutamente unico che toglie il respiro. Settemila posti vuoti sulle panche disposte in armonia con la pianta circolare, bissata dalla circolarità del baldacchino similberniniano posto al centro dov’è l’unico altare non sotterraneo della chiesa, sovrastati da una cupola la cui sommità dista 118 metri da terra e circondati da vetrate stile Notre-Dame de Paris che coprono una superficie di 7.300 metri quadrati (dunque le più grandi fra tutte le chiese del mondo), ingenerano il presentimento di un avvenimento senza precedenti sul punto di accadere, la sensazione di trovarsi nella tiepida culla (un sistema di aria condizionata attentamente calibrato attenua senza spegnerlo il torpido calore tropicale) di un inconcepibile destino. Vengono alla mente i pensieri più folli: l’esilio qui consumato della Chiesa cattolica scacciata dall’Europa e del suo Papa africano, il Vaticano trasferito ai Tropici (il suolo su cui la basilica sorge è area extraterritoriale sotto la sovranità della Santa Sede). Nella cripta il Santissimo è sfolgorante e trionfale: incastonato in una lastra di vetro rettangolare che mostra in filigrana le fattezze della Sindone e agli estremi decine di piccole croci rosseggianti delle varie tradizioni cristiane, è irrorato di luce da riflettori abbacinanti.

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Noi siamo di Bordighera
Uscendo dalla basilica udiamo voci di bambine che si esprimono in lingua italiana con perfetto accento: «Posso tenere io la borsa?». «Mamma, quanto tempo ci vuole a visitare tutta la chiesa?». Pare un’allucinazione uditiva, perché le due bambine sono somaticamente identiche a quelle che si vedono per le strade della Costa d’Avorio, come pure la madre è indistinguibile dalle giovani donne locali. Solo il padre ha le fattezze di un europeo: «Siete italiani anche voi, vero?», chiede la madre. «Lo abbiamo capito prima di sentirvi parlare, perché vi abbiamo visto ridere». Il padre spiega che la famiglia è di Bordighera, dove lui gestisce uno stabilimento balneare. Un tempo chi viaggiava attraverso l’Africa incontrava gli italiani africani: gente del Belpaese scesa nel continente nero per diventare ristoratori rinomati, floridi commercianti, piccoli capitani d’industria. Adesso si incontrano africani italiani: stirpe d’Africa trapiantata nello stivale che torna nella terra delle radici con l’orgoglio della sua nuova identità. A Elubo in Ghana c’è l’ultima stazione di servizio prima della frontiera con la Costa d’Avorio, che dista tre chilometri. Il proprietario si chiama Ignatius e ha vissuto e lavorato 40 anni in Italia, addetto di stalla in un’impresa agricola del mantovano. S’illumina quando scopre che i clienti appena arrivati sono italiani, e con gioia fa sfoggio della comune lingua. «Mia moglie e i miei due figli, che sono nati in Italia, sono rimasti là. Io due anni fa sono tornato in Ghana e ho aperto questa stazione di servizio coi risparmi di una vita. A maggio tornerò a Mantova per perfezionare le pratiche per la pensione, e poi mi ritrasferirò definitivamente qua». Insiste per celebrare l’incontro offrendo gratis acqua minerale e bibite del bar ai suoi connazionali, che ripartono grati. Médard Koua Asseman è psichiatra all’ospedale cittadino e docente universitario, un residente benestante di Bouaké, ma ci sono due cose che lo fanno soffrire: «Non vedo quasi mai mia madre e le mie quattro sorelle, perché si sono trasferite tutte in Italia e in Svizzera, e non potrò mai parlare agni, la nostra lingua indigena, con le mie nipoti, perché sono nate in Europa e parlano solo italiano e francese! Tutto è cominciato col trasferimento a Torino per motivi di studio di una mia sorella. Si è sposata con uno svizzero che lavorava lì e dopo la nascita delle loro figlie mia madre è andata a raggiungerla per aiutarla, e insieme a lei le mie sorelle. Ora sono tutte sparse fra Torino e Losanna».

Avere un parente all’estero
africaLa forte emigrazione dalla Costa d’Avorio verso Europa e America del Nord ha i contorni di un mistero africano: si tratta del paese che presenta il più alto tasso di crescita del Pil nel continente, 9 per cento annuo. La guerra è finita da dieci anni e l’immigrazione dai paesi vicini è ricominciata. Perché allora tanti lasciano il paese? «Perché i profitti delle agroesportazioni e i soldi degli aiuti internazionali restano in alto sulle nuvole, non piovono giù fra la gente», racconta Brigitte Yaboué Affaré Ahoutou, presidente della Ong Progres Universel di Djébonoua, insignita l’anno scorso del premio “Donna dell’anno” da parte della Regione Valle d’Aosta, premio del valore di 15 mila euro. Dopo avere ricoperto cariche pubbliche a livello locale, da dieci anni Brigitte combatte la sua battaglia contro la povertà e l’emigrazione con iniziative come il microcredito agli agricoltori, la promozione dell’imprenditoria femminile, la costruzione e l’apertura imminente di un dispensario. Ma gli insuccessi bruciano: «Odette collaborava con noi, al suo negozio di parrucchiera mandavamo le giovani dei villaggi per una seria formazione professionale», racconta, «ma un bel giorno di settembre è partita. Adesso è in Germania, dopo aver trascorso qualche mese in una struttura di accoglienza in Italia. Aveva fatto una colletta fra i parenti, pare che abbia speso 3 milioni di franchi Cfa (sono quasi 5 mila euro, ndr)». «Per molte famiglie poter dire di avere un parente all’estero è motivo di fierezza», chiosa un collaboratore di Brigitte.

Bisognava arrivare in questo paesone 15 chilometri a sud di Bouaké per scoprire che il governo italiano è impegnato a prevenire l’immigrazione incontrollata con programmi di sensibilizzazione e di sviluppo economico finanziati non dal ministero degli Esteri ma da quello degli Interni, e affidati a Ong italiane della cooperazione internazionale. Federica Ferro coordina per conto del Cvcs di Gorizia un progetto del valore di 100 mila euro intitolato “Ivoriani costruiscono il proprio futuro in Africa” che interessa tutti e 55 i villaggi della sottoprefettura di Djébonoua. «Il progetto è articolato in due componenti: quella informativa e quella socio-economica. La seconda consiste nella formazione professionale dei beneficiari, nella creazione di microimprese nei settori dell’agricoltura, dell’allevamento e del commercio e nell’erogazione mirata di credito. La prima consiste nel fare conoscere alla gente la realtà dell’emigrazione illegale, coi suoi drammi e le sue tragedie». In pratica la parte informativa del progetto consiste nella proiezione di filmati e documentari che mostrano le condizioni drammatiche in cui si svolgono i “viaggi della speranza” e i problemi spesso insormontabili che gli emigranti incontrano una volta arrivati a destinazione in Europa. Furoreggia Crossing Hell, un documentario francese che racconta filmata dal vivo l’odissea di un gruppo di africani che parte dal Camerun e approda a Lampedusa attraverso mille peripezie. Quando nei villaggi vengono proiettati questo e altri filmati, i saloni comunitari sono affollati all’inverosimile di pubblico di tutte le età. «Restano sbalorditi delle immagini di afghani e pakistani che attraversano la neve e le tempeste in alta quota delle montagne nel loro viaggio come di quelle che mostrano gli africani sballottati in mare», spiega Federica. «Alla fine chiedono la parola e ci sono sempre due tipi di intervento: quello che dice “mio cugino emigrato non mi ha detto la verità, al telefono ha sempre detto che il viaggio era andato bene e non c’erano stati problemi”; e quell’altro: “mio fratello è partito da tre mesi e non ha mai dato notizie, adesso crediamo che sia morto nel deserto o in mare”».

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Nascere nella regione “sbagliata”
L’impressione comunque è che si cerchi di svuotare il mare con un cucchiaio. Prima della guerra Solange era una segretaria d’azienda qualificata, adesso non riesce a venire fuori dalla disoccupazione: «Ho studiato in Francia. Mi proponevano di lavorare in una multinazionale e mi suggerivano di chiedere la nazionalità francese: ho detto di no a tutte e due le cose, l’Europa e gli europei mi hanno affascinato ma io volevo vivere e lavorare nel paese dove sono nata. Ho trovato una posizione in una grande impresa commerciale di Bouaké, che negli anni della guerra civile ha dovuto chiudere i battenti. Tornata la pace noi dipendenti ci siamo offerti di rilevare l’azienda, ciascuno di noi sottoscrivendo una quota. Invece la proprietà è finita a una cordata di imprenditori bene ammanicati, che ha comprato tutto per un tozzo di pane, e non ha riassunto i vecchi dipendenti come me. Io sono nata nella regione “sbagliata” del paese, dal punto di vista dei nuovi equilibri di potere. Questa è l’Africa, l’apartheid non è mai morto, la gente è discriminata per l’etnia, la regione, la religione. Se avessi vent’anni, anch’io oggi cercherei di emigrare».

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Foto © Rodolfo Casadei



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