Caro direttore, da quando l’Occidente è sotto attacco, si parla molto di nichilismo. La malattia dell’Occidente contemporaneo, si dice, è il “nichilismo”, che poi è l’altra faccia dell’edonismo ateo-materialista. Indubbiamente, l’uomo occidentale post-moderno non crede più in nulla, a parte il piacere immediato. Tuttavia, credo che nel nichilismo occidentale ci sia anche del buono o, meglio, credo che esista anche un nichilismo buono accanto a quello cattivo. E credo che questo nichilismo buono sia di gran lunga preferibile ai surrogati del senso spacciati, come droghe pesanti, sia delle ideologie totalitarie atee (soprattutto il comunismo) sia delle ideologie totalitarie religiose (il fondamentalismo jihadista).
In linea di massima, si può distinguere fra un nichilismo orientale e due tipi di nichilismo occidentale: uno super-oministico ed uno poetico-esistenziale. Se i primi due sono radicalmente anti-cristiani e quindi meritano una condanna senza appello, il terzo può avvicinare, sia pure molto indirettamente, alla fede. Per farla breve, il nichilismo orientale, che passa attraverso il manicheismo tardo antico e l’eresia catara medievale, è l’odio assoluto per la carne e per la creazione di Dio. È una bestemmia. Molti studiosi hanno notato che, effettivamente, ci sono alcune analogie fra l’eresia catara (che devastò vaste regioni d’Europa fra il XII e il XIV) e il fondamentalismo jihadista. Come catari medievali predicavano il suicidio e l’omicidio come strumenti per liberare se stessi e il prossimo dalla “prigione del corpo”, così oggi i jihadisti uccidono se stessi pure di riuscire ad uccidere il maggior numero di nemici. Il loro è il nichilismo dell’inferno: «Noi amiamo la morte più di quanto voi amate la vita». Se la amano così tanto, rischiano di tenersela per l’eternità.
Se il nichilismo orientale si basa ancora sulla contrapposizione manichea fra la materia (intesa come male assoluto) e lo spirito (inteso come bene assoluto), invece il nichilismo super-oministico di filosofi come Friedrich Nietzsche e Jean-Paul Sartre si basa sul materialismo assoluto. Nei loro scritti non fanno che ripeterti che Dio non c’è e che la vita umana non ha alcun senso, ma non ne sembrano veramente dispiaciuti. Infatti, l’assenza di Dio e di ogni senso diventa il pretesto per fare dell’uomo un dio terreno cui nessun piacere deve essere negato (e siamo all’edonismo assoluto) e pure un superuomo cui è lecito opprimere i deboli ossia i “sotto uomini” (impossibile continuare a nascondere che Nietzsche ha gettato le fondamenta del nazismo).
Se il nichilismo super-oministico è una filosofia sistematica, invece il nichilismo esistenziale è piuttosto un sentimento poetico, che emerge in molte delle migliori opere letterarie e cinematografiche degli ultimi cento anni. Se il primo nega il senso per fare dell’uomo il creatore del senso, il secondo piuttosto avanza una domanda di senso cui non giunge mai una risposta. Se il primo è espressione di superbia, il secondo è espressione di un senso religioso drammaticamente inappagato. Anche quando nega la possibilità che quel senso possa esistere, il nichilista esistenziale continua a desiderare che quel senso esista e gli venga incontro. Ma il desiderio di qualche cosa, qualunque essa sia, non depone forse a favore dell’esistenza di quella cosa? Come potremmo infatti desiderare, sentire la mancanza e dispararci per l’assenza di qualcosa che non esiste? Noi possiamo avere sete perché l’acqua esiste. Anche se stessimo morendo di sete in un deserto, non potremmo dire che l’acqua non esiste.
Vorrei fare una piccola apologia del nichilismo esistenziale nel cinema. La mia impressione è che, alla base della maggior parte dei più grandi capolavori, universalmente riconosciuti, del secolo scorso, ci sia proprio il nichilismo esistenziale. Di due di questi capolavori esistenziali ho già parlato: Il Settimo sigillo (Ingmar Bergman, 1957) e Blade Runner (Ridley Scott, 1982). Adesso vorrei parlare di altri due film, uno del secolo scorso e uno recentissimo: La rosa purpurea del Cairo (Woody Allen, 1985) e The Zero Theorem (Terry Gilliam, 2013). Il primo ha appena festeggiato il trentennale mentre il secondo, presentato a Cannes nel 2013 e mai arrivato nelle sale, è disponibile in streaming da pochi giorni.
La rosa purpurea del Cairo è probabilmente il capolavoro di Woody Allen. In nessun altro film, in tutta la storia del cinema, si è mai realizzata la stessa perfetta sintesi fra il dramma e la commedia brillante, fra l’esistenzialismo e la comicità. La vicenda ruota attorno allo schermo di un miserabile cinema del New Jersey, dove viene proiettato un immaginario film dal titolo, appunto, La rosa purpurea del Cairo. Fra la gente del pubblico c’è Cecilia (Mia Farrow), una donna di bassa estrazione sociale che lavora duramente per mantenere sé stessa e un marito anaffettivo e fannullone (Danny Aiello), che pensa solo a ubriacarsi e a divertirsi con gli amici. Uno dei personaggi del film (Tom Baxter, interpretato da Jeff Daniels) rimane colpito da Cecilia, esce dallo schermo e fugge con lei dal retro del cinema. In attesa che Tom, “esploratore e poeta”, torni al suo posto, tutti gli altri personaggi si riuniscono in uno dei lussuosi set del film e discutono sul da farsi fra di loro e con la gente in sala.
Al cuore del film c’è il tema del contrasto fra il sogno e la realtà. Possiamo distinguere fra due gruppi fondamentali di sogni: quelli inconsapevoli e quelli consapevoli. I primi sono quelli che si fanno di notte ad occhi chiusi, i secondi sono quelli che si fanno di giorno ad occhi aperti. I primi sono molto enigmatici, non sono necessariamente felici, a volte possono essere addirittura spaventosi (e allora si chiamano incubi). I secondi, invece, sono tutti e per definizione felici: in essi l’individuo diventa per magia quello che vorrebbe essere nella vita reale e gli capita tutto quello che vorrebbe gli capitasse nella vita reale. Per rimanere in tema, sono come film immaginari, proiettati dentro la mente, di cui l’individuo è autore, regista e attore protagonista. Ebbene, la letteratura e il cinema più commerciali cercano precisamente di riflettere i sogni ad occhi aperti della maggior parte della gente e, allo stesso tempo, suggeriscono alla gente che cosa sognare. Sebbene assuma una diversa identità e diverse caratteristiche in ogni romanzo, il protagonista assoluto della letteratura rosa, venduta all’ingrosso un tanto al chilo in tutte le edicole, è l’archetipo platonico dell’uomo sognato da tutte le donne o quasi (su questa mediamente pessima letteratura e su quest’uomo archetipico sono stati versati fiumi di inchiostro). Similmente, la maggior parte delle commedie americane di ieri e di oggi si svolgono nel mondo dei ricchi, perché la maggior parte della gente sogna di essere più ricca di quello che è, di frequentare gli ambienti che contano e di incontrare uomini affascinanti e donne bellissime. L’omonimo film in bianco e nero che viene proiettato all’interno di La rosa purpurea del Cairo è stato concepito da Woody Allen come una caricatura delle classiche commedie chic degli anni Trenta, le cui trame banali e ripetitive sono costellate da party dell’alta società e viaggi esotici.
I personaggi in bianco e nero di questo film nel film sono tanto irreali quanto ridicoli. Se al di qua dello schermo (dove prevalgono i colori della ruggine e del fango) la gente cerca di sopravvivere alla grande depressione economica degli anni Trenta, al di là dello schermo (dove il bianco e nero ha lo splendore dell’argento) dei ricchi frivoli e svagati, stanchi di party e serate al teatro, cercano rimedio alla noia fra le piramidi egizie. I battibecchi fra questi ricchi immaginari, che vorrebbero tanto diventare reali, e la gente reale in sala, che vorrebbe tanto entrare in quel mondo irreale, sono esilaranti. Anche il fatto che nessuno provi stupore e senta il bisogno di cercare le cause della fuga prodigiosa di uno dei personaggi suscita ilarità. Gli spettatori in sala si lamentano perché sullo schermo i personaggi stanno fermi a chiacchierare tutto il tempo, i gestori si lamentano perché perdono incassi e i produttori del film si lamentano perché la fuga di uno dei loro personaggi dà scandalo e potrebbe rovinare i loro affari. Intanto, al di fuori del cinema, l’inesperto Tom, che non sa nulla del mondo reale, diventa protagonista di una serie di gag divertenti e raffinate, quali solo Allen poteva concepire. Ad esempio, quando bacia Cecilia, Tom si aspetta che ci sia “la dissolvenza”.
Tom, che è appunto l’incarnazione (anzi la pseudo incarnazione virtuale) del tipico uomo ideale da romanzo rosa, ama Cecilia in maniera sincera e appassionata, non è capace di compiere una sola cattiva azione e ha sempre un aspetto impeccabile («è questo uno dei vantaggi di essere immaginario», dice). Ma quest’uomo dei sogni, che si profonde continuamente in mielose dichiarazioni d’amore per Cecilia, appare anche vagamente stucchevole. In generale, i sogni ad occhi aperti e i personaggi che li abitano alla lunga stancano. Essendo infatti nostre idee, non hanno mistero. Inoltre, i sogni non modificano la realtà. Anche se è entrato nella realtà, Tom non riesce a diventare reale.
In conclusione, nella visione di Woody Allen sogno e realtà rimangono l’uno di fronte all’altra, come due mondi separati e ugualmente privi di speranza. Il mondo reale è segnato dal male fisico e morale mentre il mondo dei sogni, oltre ad essere un po’ ridicolo, è privo di realtà ed è incapace di incidere nella realtà. Chi passa tutto il suo tempo a sognare ad occhi aperti, non si impegnerà per rendere la realtà che lo circonda un posto più abitabile. Ma la scena finale del film, che è una delle scene più amare di tutti i tempi, sembra suggerire che l’unica possibile gioia su questa terra sia la gioia illusoria del sogno (e vengono in mente le “illusioni” di Giacomo Leopardi, nichilista nel senso più nobile del termine).
Attraverso i suoi film, Woody Allen delinea una visione moderatamente nichilista (se così si può chiamarla) secondo cui solo la passione sessuale, sebbene non sia meno illusoria delle immagini che appaiono e compaiono sullo schermo di un cinema, può dare alla vita un po’ di senso. E quando una passione finisce, se ne può accedere subito un’altra (è questo il “messaggio” di Tutti dicono I love you, film di Allen del 1996). Ma alla fine, la sequenza delle illusioni e delle delusioni si arresta di fronte alla morte, che appare come la fine di tutto. Allen stesso ha più volte dichiarato che cerca di lavorare senza tregua solo per non pensare al fatto che dovrà morire. E a giudicare dal fatto che nella sua carriera ci ha donato la bellezza di quarantacinque film, quasi tutti di alto livello, la morte deve fargli davvero molta paura.
Ma oltre al nichilismo, forse ad insaputa dello stesso autore, nel film c’è pure l’intuizione del senso religioso. Tom è sì incapace di diventare reale ma è comunque capace di dare a Cecilia tutto l’amore che lei non ha mai potuto ricevere da nessuno. È stata lei, col suo desiderio inappagato di amore, a estrarre Tom dallo schermo e a dargli una apparenza reale. Il dramma della vita è che nessuno riesce a ricevere tutto l’amore di cui ha bisogno e nessuno riesce a darlo agli altri. Chi può dare all’uomo questo amore totale e incondizionato, se non Dio? A noi, quest’uomo che scende dal mondo dei sogni per entrare nel mondo reale ci fa pensare ad un altro uomo, che scese dal cielo e poi ne ascese.
The Zero Theorem di Terry Gilliam è un film straordinario, sebbene è lontano dall’essere un capolavoro assoluto. Terry Gilliam riprende il discorso distopico che aveva iniziato nel 1985 con Brazil e lo aggiorna. La società immaginaria in cui si svolge la vicenda del film del 2013 sembra essere la stessa in cui si svolgeva la vicenda del film del 1985, ma parecchi anni dopo. Se infatti la società di Brazil si collocava «da qualche parte nel XX secolo», invece quella di The Zero Theorem si svolge in un futuro a noi prossimo, fin troppo simile al presente, o forse in un presente parallelo. In questo mondo bizzarro, le tecnologie informatiche saturano ogni spazio e risucchiano nell’universo virtuale della rete i fragili io delle persone, che non se ne distaccano neanche quando camminano per strada (sono letteralmente inseguite da messaggi pubblicitari virtuali). Ma sebbene più avanzate, complicate e bizzarre, le apparecchiature informatiche che appaiono nel film sono le stesse che già ci circondano da ogni parte e che impegnano la maggior parte del tempo della nostra giornata. Non passiamo più tempo sui social-network che nel mondo reale, anche quando camminiamo per strada?
Dal punto di vista estetico, le scenografie di The Zero Theorem sono costruite sulla base dei principi dell’estetica post-moderna, che impone accostamenti eclettici fra stili diversi. Come in Blade Runner, film postmoderno per eccellenza, in The Zero Theorm edifici nuovi stanno accanto ad edifici antichi e fatiscenti, tecnologie nuove stanno accanto ad oggetti ed arredamenti demodé. Certo, non si può pretendere che la visione futuristica di The Zero Theorem, film a basso costo, possa avere la stessa grandiosa magnificenza che aveva la visone di Blade Runner, senza contare che nel 1982 i contrasti post-moderni erano nuovi e quindi apparivano sorprendenti, mentre oggi appaiono un po’ convenzionali.
Come in Brazil, la maggior parte dei personaggi secondari appaiono grotteschi, alcuni perfino caricaturali. Figli di una società il cui unico valore è l’efficienza nel produrre e nel consumare, sono quasi sempre intenti a fare cose stupide e a perdersi in chiacchiere insensate. Per quanto riguarda Brazil, come dimenticare la madre di Sam, che cianciava di regali di Natale e di chirurgia estetica portando in testa un inverosimile ed eloquente cappellino a forma di scarpa? Se il protagonista di Brazil lavorava in un gigantesco e labirintico ente pubblico, in The Zero Theorem Qohen (Christoph Waltz) lavora per la Mancom, una corporation legata al settore informatico. Il potente e inarrivabile capo della Mancom (Matt Damon) obbliga Qohen a lavorare alla soluzione del misterioso “teorema zero”, che ha a che fare col secondo principio della termodinamica. È difficile capire che cosa sia esattamente questo teorema e in che maniera possa favorire gli affari della Mancom, ma in realtà non serve capirlo. Quello che importa, è che nel corso del film lo “zero” diventa sempre più invadente, fino a rivelarsi come il significato di tutto. Nella visione di Gilliam, non solo l’universo fisico ma anche la vita individuale è soggetta all’entropia, che discioglie tutti gli accadimenti in un caos senza storia e senza destino. Quindi, l’unica cosa sensata da fare è fuggire da questo caos insensato e rifugiarsi nei sogni, che le tecnologie virtuali possono amplificare.
Ma oltre a questo messaggio radicalmente nichilista (che effettivamente appare troppo palese, quindi cerebrale) c’è anche qui, come nel film di Allen, una inconsapevole intuizione del divino. In maniera significativa, Qohen abita in una vecchia chiesa sconsacrata, adornata da antichi affreschi, in cui elementi di arredamento, oggetti di ogni genere e rifiuti si affastellano col massimo disordine (implicito il richiamo alla casa di J. F. Sebastian di Blade Runner). In quella che era la casa del Signore, ma da cui il Signore è stato “sfrattato”, Qohen non riesce ad avere fede in nulla ma vorrebbe tornare ad averla. Egli, che si riferisce a sé stesso con un impersonale “noi”, che non sopporta la compagnia di nessuno e che non riesce più a provare piacere per nessuna cosa, ha quasi paura di uscire dalla sua casa-chiesa e di starne lontano anche solo per un’ora. Infatti, vive aspettando una misteriosa telefonata sul suo telefono fisso. In passato infatti una persona misteriosa, gli aveva promesso per telefono che, in un momento imprecisato del futuro, lo avrebbe richiamato per rivelargli l’unica cosa che Qohen desidera conoscere: il senso della sua vita. Nell’interminabile attesa di questa telefonata, qualcosa succede: un ragazzo e una giovane donna entrano imprevedibilmente nel recinto della sua solitudine e riescono a fargli riscoprire, almeno in parte, il piacere dell’amicizia e la gioia dell’amore. Non è di un discorso filosofico sul senso della vita, ma di una amicizia concreta, che il senso lo porti materialmente, che abbiamo bisogno.