
New Blood: dov’è il sangue nuovo di Peter Gabriel?
Nuovo disco di un big del rock ed ennesima conferma dell’assoluta mancanza di idee che ormai pervade le menti musicali più creative degli ultimi quarant’anni. Quaranta, non dieci o cinque. Nella cifra si spiega il perché di tale situazione: tanta acqua è passata sotto i ponti, tante note sono state messe in fila più o meno piacevolmente. Mentre in Italia c’è chi pensa alla pensione, annunciata a ridosso dell’uscita di un nuovo lavoro probabilmente per incentivarne le altrimenti esigue vendite, dalle parti della “perfida Albione” il barile si raschia, ma con stile. A parte Sir Elton, che gira il mondo con il suo Red Piano, c’è chi non fa un disco di inediti da almeno un decennio, dopanni o aver raccolto consensi a destra e a manca, in gruppo o soli soletti, negli 70/80.
Due nomi su tutti, due grandi protagonisti del rock britannico più elegante e barocco: Sting e Peter Gabriel che, impegnati a urlare al mondo che “il rock è morto!”, non si sono accorti che anche loro non stanno troppo bene. Ha iniziato l’ex frontman dei mitici Police a riciclarsi di volta in volta cantore del Rinascimento elisabettiano e menestrello folk, ma con un allure snob da progressista salottiero alla Fabio Fazio. Confezione ottima, innegabilmente, gran professionismo da immenso artista a scapito purtroppo del sanguigno rapporto con il pubblico, che però desidera inni calorosi e popolani. Stessa solfa con il recupero classicheggiante del suo catalogo ultra decennale, Simphonicity: qui il rischio che facesse capolino la noia era altissimo. Insomma, operazioni di classe un po’ algide, giusto per ricordare che l’artista è vivo e lotta insieme a noi, con un invito inespresso a non dimenticarlo!
Lo stesso meccanismo di marketing, ammantato da ricerca musicale intellettualistica, vale per il nuovo lavoro di Peter Gabriel: New Blood. A dir la verità già all’inizio della carriera, nelle fila dei Genesis, il nostro proponeva da par suo un rock particolare, in bilico fra rappresentazione teatrale e un rarefatto progressive pop-folk: il genere musicale “colto” che provocò la reazione violentemente grezza del punk. Dopo aver colto l’alloro di critica e pubblico con quel capolavoro di So nel bel mezzo del cammin degli 80, l’album che decretò la genesi della “world music” (in compagnia dell’altro gioiellino a 24 carati intitolato “Graceland” del grande Paul Simon), Gabriel ha vissuto di rendita, mascherando l’impasse creativa tramutandosi in guru multimediale e centellinando scientificamente le uscite puramente discografiche. Un paio d’anni fa tirò fuori dal cappello un’idea “originale”: cantare brani di altri artisti mutandoli in irriconoscibili versioni per grande orchestra. Operazione riuscita a metà che ora bissa proponendo brani del suo repertorio, arrangiati rigorosamente in maniera sinfonica, e anche qui il risultato è contraddittorio.
La volontà esplicita di Gabriel di non voler realizzare un banale greatest hits limita fortemente il divertimento del giochetto che l’ascoltatore ricerca in queste operazioni: il confronto tra la versione originale e quella classicheggiante che funziona con i grandi successi globali e non con brani sconosciuti ai più, scelti dall’autore con una certe dose di narcisismo. Sarà un caso che ben quattro dei quattordici brani scelti arrivano proprio da So, il lavoro più pop del cantante. Tirando le somme i fan di Gabriel apprezzeranno il tentativo, ma per gli ascoltatori occasionali dell’ex Genesis il consiglio è far visita a qualche mediastore e cominciare a conoscere il grande artista attraverso la sua straordinaria produzione originale.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!