
«Nei miei sette anni di odissea giudiziaria ho imparato a resistere»

“E’ stata un’odissea lunga sette anni e mezzo. Ora provo un senso di liberazione immenso. La sentenza segna la mia rinascita umana e civile”. Con queste parole Michael Giffoni, ex primo ambasciatore d’Italia in Kosovo, commenta a Tempi la fine del suo calvario giudiziario. Lunedì il tribunale di Roma lo ha assolto dopo sette anni e mezzo dalle accuse di associazione a delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per una vicenda legata al rilascio di alcuni visti irregolari nel periodo in cui era ambasciatore a Pristina. L’innocenza di Giffoni è stata riconosciuta, ma in questi sette anni e mezzo l’ex ambasciatore ha perso tutto. E’ stato espulso dal corpo diplomatico senza stipendio e la vicenda giudiziaria gli ha provocato gravi problemi a livello economico, familiare e anche di salute (due infarti, un ictus e un tumore). Insomma, una vita distrutta.
E pensare, ambasciatore Giffoni, che la sua carriera fino all’emergere dell’indagine nel 2014 era stata di altissimo profilo.
Sono entrato in carriera diplomatica nei primi anni Novanta, subito dopo la caduta del muro di Berlino. Professionalmente sono figlio di quell’evento e delle sue conseguenze geopolitiche. Nel 1994 sono stato mandato a Sarajevo per occuparmi della grande tragedia europea di quegli anni, vale a dire la guerra nella ex Jugoslavia. Ho vissuto l’assedio di Sarajevo, gli orrori di Srebrenica, i crimini di guerra. Poi sono diventato direttore politico dell’Alto rappresentante per l’applicazione degli accordi di Dayton, Carl Bildt. In seguito capo della task-force per i Balcani dell’Alto rappresentante per la Politica estera Ue, Javier Solana. Nel 2008 sono stato nominato primo ambasciatore d’Italia in Kosovo. Sono stato io a istituire fisicamente l’ambasciata italiana. Lì sono rimasto fino al 2013, quando sono diventato capo dell’unità per il Nord Africa e la transizione araba, durante il periodo delle primavere arabe.
Tutto crolla nel febbraio 2014, quando emerge la notizia di un coinvolgimento dell’ambasciata italiana in Kosovo in un giro di visti irregolari.
La mia vita cambia improvvisamente, senza alcuna avvisaglia. Ero stato in missione a Tripoli per preparare la conferenza sul futuro della Libia, che poi si sarebbe tenuta a Roma in aprile. Il 6 febbraio rientro in Italia e il mattino seguente vado in ufficio per fare rapporto. Al termine dell’incontro vengo convocato urgentemente dal direttore del personale, che nella sorpresa più generale mi comunica che nei miei confronti era stato comminato un decreto di sospensione cautelare dal servizio. Poche settimane dopo, la sanzione si trasforma in un provvedimento mai adottato dall’amministrazione degli Esteri nel secondo Dopoguerra: la destituzione ex articolo 84 del d.p.r. n. 3 del 1957. Tutto ciò senza che ci fosse stato ancora un accertamento di natura penale. Ho perso tutto in poche settimane.
Poi il suo ricorso al Tar.
Dopo un anno, nel giugno 2015, il Tar mi ha dato ragione disponendo la mia reintegrazione in servizio. Il ministero però non ha accettato questo provvedimento e ha convalidato il decreto di destituzione precedente. Ho quindi dovuto fare un nuovo ricorso al Tar, che nel luglio 2016 mi ha dato di nuovo ragione, condannando il ministero degli Esteri e reintegrandomi in servizio. Il ministero, tuttavia, ha fatto ricorso al Consiglio di Stato, che ha prima sospeso e poi annullato la sentenza del Tar. Tutto ciò senza che in sede penale ci fosse ancora neanche un rinvio a giudizio. Un ribaltamento completo del principio costituzionale di presunzione di innocenza.
A distanza di sette anni e mezzo, i giudici del tribunale di Roma hanno riconosciuto la sua innocenza.
E’ stato un processo lunghissimo. Basti pensare che il rinvio a giudizio è giunto solo nell’ottobre 2016 e che il processo è cominciato agli inizi del 2017. Tra l’altro, per gli stessi fatti in Kosovo è in corso un processo che non mi vede chiamato neanche a testimoniare, perché dalle risultanze delle indagini svolte da Eulex i magistrati hanno subito verificato la mia estraneità ai fatti. Alle lungaggini tipiche del processo penale si è poi aggiunta la pandemia. Si è così arrivati alla sentenza di lunedì, con cui il tribunale di Roma ha riconosciuto la mia innocenza. Ora provo un senso di liberazione immenso. La sentenza segna la mia rinascita umana e civile.
Come ha vissuto questi sette anni e mezzo?
E’ stata un’odissea. Per me l’attività di ambasciatore costituiva una missione di vita. Quel lavoro per me significava mettersi al servizio dello Stato e dell’Unione europea. Veder crollare tutto da un momento all’altro ed essere definito un criminale è stato terribile. Naturalmente questo ha comportato sofferenze di ogni tipo: economico, familiare, di salute. Sono stati anni durissimi, dai quali però ho anche tratto degli insegnamenti. Sì, ho vissuto sofferenze di ogni tipo, ma ho anche capito sulla mia pelle cosa vuol dire resistere. Resistere vuol dire impegnare ogni cellula del proprio corpo e ogni angolo della propria mente e del proprio animo per un obiettivo, nel mio caso veder riconosciuta la mia innocenza. Ora dopo sette anni e mezzo il tribunale mi ha assolto e questa è stata una lezione importante. Non si deve mollare mai.
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