Mostro di Firenze. È la svolta che spingerà le indagini oltre la pista dei “compagni di merende”?
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Quello che trapelava dalle parole dell’ex legionario francese Giampiero Vigilanti, incontrato da Tempi lo scorso aprile, prima che fosse ufficialmente indagato nel caso “Mostro di Firenze”, era una conferma di un fatto ampiamente condiviso dai cittadini del capoluogo toscano, dai criminologi e dai conoscitori del processo: Pietro Pacciani non era il serial killer che a cavallo degli anni Ottanta uccise 14 persone in provincia di Firenze.
Vigilanti a Tempi non ha mai parlato di “mandanti”. Ma di “menti”. Era implicito, per lui, che i “compagni di merende” che si trovavano spesso a pasteggiare nelle taverne di San Casciano (“il Vampa” Pacciani, “Torsolo” Vanni, “Katanga” Giancarlo Lotti e l’oligofrenico Fernando Pucci) non avessero le capacità intellettuali, l’esperienza e la conoscenza pratica per pianificare i delitti attribuiti al serial killer fiorentino. E nemmeno per attuarli. La morale non esplicitata del racconto di Vigilanti era questa: “A Pacciani mezzo secolo fa rifilai una bastonata in testa. Secondo voi, se fosse stato il Mostro, sarei qui a raccontarvelo?”.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]UNA PISTA NUOVA. Le novità sull’inchiesta guidata oggi dal pm Luca Turco, della procura di Firenze, e ventilate in questi giorni su La Nazione, la Repubblica e il Corriere della Sera, sono forse il segno di una possibile svolta impressa a un’annosa inchiesta che dal 1974 ha visto avvicendarsi decine di investigatori. I carabinieri del Ros di Borgo Ognissanti in questi giorni potrebbero essere sulle tracce, per la prima volta in 25 anni, di un’alternativa al quadro accusatorio costruito sull’ipotesi che dietro i delitti del serial killer ci fossero quei “compagni di merende” che secondo Vigilanti non avevano la mente e le capacità per commetterli.
SVOLTA IN STILE CSI? Ciò che è poco chiaro dalle notizie trapelate sui giornali è come il materiale biologico trovato sui reperti dell’ultimo duplice omicidio del Mostro (Nadine Mauriot e Jean-Michel Kraveichvil, settembre 1985), al quale La Nazione e Repubblica hanno fatto qualche accenno nei giorni scorsi, potrebbe essere utile alle indagini. I giornali hanno parlato, per esempio, di tracce di sangue rinvenute su un fazzoletto nei pressi della scena del crimine, ma il fazzoletto incriminato fu trovato in un cespuglio vicino alla scena del crimine molti giorni dopo il ritrovamento dei corpi dei due francesi. Quale valore potrebbe avere? Nemmeno la tenda delle vittime francesi – di cui aveva parlato inizialmente La Nazione – passerebbe il vaglio di un tribunale: «La canadese di Jean-Michel e Nadine – dice un esperto del caso a Tempi – fu vista sul tetto del reparto di Medicina legale del Carreggi per settimane. Troppo ingombrante per essere conservata nel posto adatto. Quali tracce del serial killer potrebbero essere rimaste oggi?». Alla base delle nuove indagini del Ros potrebbe invece esserci, forse, l’esame di tutti i bossoli rinvenuti nei duplici omicidi. È il Corriere della Sera a suggerirlo.
I BOSSOLI DEL 1968. Allo studio dei carabinieri di Borgo Ognissanti potrebbero essere finiti, infatti, i reperti insolitamente spillati al faldone del cosiddetto “caso sardo”, un duplice omicidio (simile a quelli poi attribuiti al Mostro) avvenuto nelle campagne fiorentine e risalente all’estate del 1968, che ha sempre rappresentato un problema per gli inquirenti. Nel 1982, a pochi giorni dal quarto duplice omicidio del serial killer toscano, quando ancora si pensava che l’autore avesse iniziato a colpire in provincia di Firenze il 14 settembre 1974, i predecessori del Ros a Borgo Ognissanti trovarono, in un faldone polveroso abbandonato nei meandri della cancelleria del tribunale di Firenze, alcuni bossoli esplosi del tipo “calibro 22”. Lo stesso usato dal Mostro. I segni sui bossoli scampati “miracolosamente” al macero (per il semplice fatto che non erano dove avrebbero dovuto essere) erano identici a quelli dei bossoli trovati sulle scene dei crimini del Mostro. Da ciò si dedusse che la pistola usata dal Mostro era la stessa usata dall’assassino che aveva ucciso Antonio Lo Bianco e Barbara Locci nell’estate del 1968.
UNA FORTUNATA COINCIDENZA. Sul sito insufficienzadiprove.org, gestito dal blogger Flanz, che vuole mantenere l’anonimato, è possibile “scartabellare” i documenti sul “caso sardo” e sfogliare i giornali dell’epoca. Il lettore si può fare un’idea di come quel “fortunato” ritrovamento abbia influenzato in maniera determinante le indagini sul Mostro. Infatti, grazie a quei bossoli, subito dopo l’omicidio del 1982, le indagini sul serial killer di Firenze presero una direzione precisa: la “pista sarda”. Il primo duplice omicidio attribuito all’assassino non venne più fatto risalire al 1974, ma divenne quello del 1968 maturato nell’ambiente “isolano” di Lastra a Signa, quartiere periferico di Firenze. Il duplice omicidio aveva già un movente (gelosia) e un insolito colpevole reo confesso, il marito di Barbara, Stefano Mele, che dopo essersi autoaccusato aveva puntato il dito anche contro altri frequentatori della moglie, tutti di origini sarde. La pistola, apparentemente, non era mai stata ritrovata. Dunque, in qualche modo, uno dei sardi implicati nel caso doveva sapere chi fosse il vero serial killer. I bossoli del caso del 1968 spinsero gli inquirenti ad aprire un’inchiesta che nel corso degli anni Ottanta rappresentò il principale filone di indagine sul caso del serial killer fiorentino, portando in carcere cinque persone, senza mai arrivare a una conclusione.
LE PERPLESSITÀ. L’inchiesta sulla “pista sarda” si chiuse solo nel 1989, con un nulla di fatto, visto che il serial killer aveva continuato a uccidere indisturbato mentre tutti i sardi coinvolti nell’indagine, fatte due uniche eccezioni, erano in carcere. A distanza di anni, tutti i conoscitori del caso sono ancora perplessi sul fatto che a spingere gli inquirenti in quella direzione, a pochissimi giorni dal duplice omicidio di via Virginio Nuova a Baccaiano, fosse stata una persona che non fu mai stata individuata con certezza. Un anonimo? Un maresciallo? Un informatore? Chi lo sa. Sta di fatto che il “miracolo” favorì più il serial killer che gli investigatori.
LA PROVA DEL COLLEGAMENTO. In questi giorni, dunque, potrebbe essere stata messa sotto esame dai carabinieri la prova del collegamento fra il caso del 1968 e gli altri. È probabile che il Ros abbia effettuato una comparazione fra i bossoli trovati nel faldone nel 1982 e le fotografie dei bossoli rinvenuti nel 1968, allegate alla perizia originale dal colonnello Innocenzo Zuntini. Se i risultati di questo esame avessero rivelato un’anomalia, il collegamento fra il caso del ’68 e gli altri omicidi del Mostro potrebbe essere messo in discussione. Il che, sicuramente, rappresenterebbe una concreta svolta per le indagini. A prescindere da quale pista stiano seguendo oggi la procura e il Ros.
Foto Ansa
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