Lo «Stato corporativo» minaccia la «pace sociale». In un duro editoriale sul Corriere della Sera, Angelo Panebianco critica il fatto che la maggioranza di governo abbia votato un emendamento alla Legge di stabilità che «dà ai sindacati il potere di veto sui licenziamenti nelle municipalizzate di Roma». Un emendamento proposto dal senatore di Forza Italia Francesco Aracri e passato anche grazie ai voti del Pd, «mentre veniva respinta (per il veto della Cgil) una proposta di Linda Lanzillotta che andava nella direzione opposta».
LE LOBBIES DELLA SPESA PUBBLICA. Il premier Enrico Letta, «che è uomo colto e intelligente», prosegue Panebianco, «anziché difendere l’indifendibile», dovrebbe a questo punto spiegare al Paese, «perché qui da noi ciò che ci si propone inizialmente di fare – vedi la parabola tragicomica della spending review – non può essere fatto (da nessuno)». Letta dovrebbe spiegare «le ragioni per cui è al di là delle umane capacità innescare in Italia un percorso virtuoso di sviluppo». E la colpa di tutto questo immobilismo, secondo l’editorialista, è da attribuire alla «potenza delle lobbies che, in Parlamento, nell’amministrazione, negli enti locali (…), negli organi della giustizia amministrativa, stanno a guardia della spesa pubblica». Oltre che alla «forza di una tradizione culturale che avvalla e legittima l’azione delle suddette lobbies», ma anche alle «regole del gioco costituzionale e non, costruite per impedire inversioni di marcia».
STATO CORPORATIVO, PAESE PIÙ POVERO. In particolare, osserva Panebianco, «con una Costituzione diversa i governi italiani potrebbero disporre di una forza simile a quella che detengono i governi della altre grandi democrazie europee. Ma il partito trasversale della spesa e delle tasse non può accettarlo». E lo «Stato corporativo», che così facendo sostiene di tutelare la «pace sociale», non si accorge che, in realtà, «l’impoverimento del Paese avanza inesorabilmente», si gonfia l’«esercito dei non tutelati» e, «alla fine, la pace sociale viene meno», a causa «della rivolta, e dell’assedio, degli esclusi».
CAMBIARE LA COSTITUZIONE. Secondo Panebianco, se il Paese non sarà in grado di «sbarazzarsi di ciò che di sbagliato o inadeguato c’è nella Costituzione del ’48», rischia di aver ragione Peter Praet, capo economista della Bce, che in un’intervista su La Stampa ha detto che «siamo stati bravi, abbiamo messo sotto controllo i conti. (…). C’è solo il piccolo dettaglio che lo abbiamo fatto a colpi di tasse anziché di tagli. Moriremo per asfissia da tasse ma con i conti (forse) in ordine», nota ironico Panebianco. «Sono soddisfazioni».
PIÙ POTERI AL CAPO DEL GOVERNO. Ma cosa vuol dire cambiare la Costituzione? «Se si vuole istituzionalizzare il decisionismo», notava già Luciano Pellicani sul Foglio del 23 novembre, «occorre muoversi verso una riforma costituzionale che modifichi la logica sintattica del sistema, di modo che cessi di essere una democrazia assembleare frammentata e assuma le vere forme della democrazia governante». Vale a dire, prosegue Pellicani, «una democrazia con un esecutivo dotato di quei poteri decisionali che sono indispensabili per governare una società in continua trasformazione e permanentemente alle prese con sfide inedite, le quali non possono essere affrontate con semplici mezzi amministrativi». Ma non basta. Secondo Pellicani, «l’istituzionalizzazione del paradigma decisionista esige una radicale riforma del potere esecutivo». Oggi, infatti, in Italia, «chiaramente abbiamo un capo dell’esecutivo impotente, al quale, peraltro, viene attribuita la piena responsabilità del governo»; senza che, però, gli siano attribuiti, per esempio, i «poteri di cui dispone il cancelliere in Germania e il premier in Gran Bretagna». Due paesi «di consolidata democrazia e di consolidato decisionismo. I quali ci indicano la strada da imboccare, se si vuole effettivamente curare l’emiplegia che ha afflitto la Repubblica sin dalla sua nascita».