La difficoltà del Pd sta tutta nelle prime parole di Bersani a Porta a Porta, ieri sera. Bruno Vespa chiede: «Ha ragione Monti o Susanna Camusso?» E il segretario risponde: «Posso fare un ragionamento?». Per Pierluigi Bersani si prospettano giorni complicati. L’accordo raggiunto con Angelino Alfano, Pier Ferdinando Casini e Mario Monti prevedeva che il governo non avrebbe proceduto alla riforma in assenza di accordo con le parti sociali, e la Cgil annuncia barricate. Un pezzo del partito festeggia la riforma sull’articolo 18, l’altro, quello più legato alle posizioni della Cgil, invoca importanti aggiustamenti. Dopo lo sfogo di Bersani (questo «non si può chiamare accordo»), è arrivato, un po’ a sorpresa, anche il monito di Massimo D’Alema, che bolla il testo sui licenziamenti come »pericoloso e confuso».
Quello auspicato, fino all’ultimo, dai vertici del Pd (e anche dai sindacati, come ha svelato il segretario della Uil Luigi Angeletti) era il modello tedesco, e Monti l’ha fatto saltare. Una scissione è vicina? Improbabile: le amministrative sono alle porte e non conviene a nessuno. La coesione, almeno apparente, è fondamentale per andare avanti. Lunedì forse Bersani riuscirà a migliorare in senso tedesco il capitolo licenziamenti. Ma se non dovesse riuscirci, si porrà un problema di gestione: come tenere assieme un partito palesemente spaccato in due? Enrico Letta si è affrettato a dire che in aula «il voto del Pd è scontato». Dello stesso parere Walter Veltroni, Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni, che ha ricordato che «la riforma è buona, e va giudicata nel suo insieme, non solo sull’articolo 18». Dall’altra parte Matteo Orfini («il governo Monti doveva unire: invece ha prodotto una rottura»), Enrico Rossi e Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, che ha accusato il governo di non aver colto «lo straordinario senso di responsabilità dimostrato dai sindacati».
Sui giornali di oggi, due interventi meritano di essere confrontati: quello di Piero Ichino (dalle cui elaborazioni è nato gran parte del testo) sul Corriere della Sera e quello di Rosy Bindi sull’Unità. La presidente del Pd tratta il premier da ingrato: «Il suo governo è nato perché un grande partito ha lavorato perché questo avvenisse». Per questo le forze politiche vanno rispettate. In altre parole: «Il nostro sì alla riforma del lavoro non è affatto scontato». L’impegno è quello di modificare il testo in Parlamento, dal momento che non sono stati fatti «passi forti e significativi per il superamento delle differenze tra lavoro a tempo indeterminato ed il precariato». In conclusione, «le finalità della riforma non mi pare siano state raggiunte». E così conclude: «L’impressione è che il Governo stia attuando la lettera della Bce nella direzione che avrebbe potuto scegliere Berlusconi. Io francamente non sono più disponibile a dare il mio voto ad un Governo che fa scelte di destra».
E mentre gli operai di tutta Italia protestano, Pietro Ichino dice la sua con una lettera al quotidiano di via Solferino, definendo la riforma «imperfetta, ma funzionante». E accusando il suo partito di essere «incomprensibile» nella sua incertezza. Il motivo è presto detto: «Questo progetto del governo è in gran parte costruito con materiali programmatici prodotti proprio dal dibattito interno: è stato soprattutto il Pd, in questi ultimi anni, a denunciare il regime di apartheid fra lavoratori protetti e non protetti nel tessuto produttivo italiano». Insomma, se il Pd «rinnegasse la propria vocazione originaria» si dimostrerebbe un tantino schizofrenico. O sotto il ricatto del sindacato.
Twitter: SirianniChiara