Miriam, o della morte che ci prende alle spalle

Di Annalisa Teggi
06 Novembre 2022
La ragazza è rimasta lì, a metà di gesti, parole, legami. Non si è riappacificata col fidanzato, non ha sentito il papà, non ha capito chi le veniva addosso. La fine è arrivata prima dell’ultima parola
Miriam Ciobanu, la studentessa travolta e uccisa da un coetaneo la notte di Halloween a Pieve del Grappa
Miriam Ciobanu, la studentessa travolta e uccisa da un coetaneo la notte di Halloween a Pieve del Grappa (foto Ansa)

Può essere che la morte ci venga a interrompere mentre siamo a metà di qualcosa. Che ci sorprenda mentre molto di quello a cui teniamo è sospeso, irrisolto, da sistemare. Può essere che la fine terrena arrivi e non somigli affatto a un vero finale. Che ci prenda di spalle, al buio, col nervoso addosso.

La notte della morte di Miriam

Miriam Ciobanu è bellissima nelle foto che sono state diffuse dopo la sua morte. Sono immagini perfette, cioè pensate e scelte per i profili social. Il suo volto forse era lontano da una posa impeccabile mentre camminava per strada da sola e al buio alle 4 di mattina sulla provinciale in zona Pieve del Grappa, decisa a lasciarsi alle spalle la casa del fidanzato con cui aveva avuto un litigio. Ha tentato di chiamare il padre, magari avrebbe voluto che le venisse incontro in auto, ma lui dormiva e non ha sentito gli squilli.

Un’Audi l’ha travolta in pieno, guidata da un suo coetaneo 23enne. Guida in stato di ebbrezza, tracce di cannabinoidi nel sangue, eccesso di velocità. Il giovane è rimasto lì, di fronte al cadavere, fino all’arrivo dei soccorsi. «Era in mezzo alla strada e non l’ho proprio vista», ha dichiarato.

Un tumulto di parole non dette

Miriam era davvero in mezzo a un tumulto di parole non dette, rapporti interrotti e tutto si è fermato. Non doveva finire così. Non doveva finire. Nessuno di quelli coinvolti in questa tragedia tollera che la fine di una vita sia lì (in mezzo a una provinciale buia nel trevigiano), neppure noi che ne siamo solo spettatori.

Abbiamo bisogno che in qualche modo la storia vada avanti, con le parole tentiamo di portarla a una specie di traguardo o porto in cui la fine coincida con l’afferrare un senso – apparentemente – un po’ più compiuto. Allora seguiamo il filone delle indagini e srotoliamo la matassa degli incidenti stradali, dei giovani al volante in stato alterato, delle troppe morti innocenti. Dobbiamo sciogliere il groppo, spiegando le colpe e gli errori che non devono ripetersi. E diciamo: questo è il punto.

Il punto è lì, dove morte l’ha colta

Anche il padre di Miriam ha bisogno di spiegare, di dire ad alta voce, il suo rimorso per non aver risposto al telefono. Questo per lui è il punto, dolente. A sua volta il fidanzato della ragazza spiega che lui e il fratello hanno tentato di dissuaderla dal mettersi per strada da sola in piena notte. Anche questo è un punto rilevante. Il ragazzo che l’ha travolta spiega la sua versione dei fatti, punto per punto. La madre di Miriam spiega perché ha scelto di perdonare chi le ha ucciso la figlia, osa spostare il suo punto fermo oltre l’ostacolo del rancore. Spieghiamo e mettiamo punti, lo facciamo sempre. Ed è comprensibile, perché zitti di fronte a una storia interrotta non ci possiamo stare.

Ma Miriam è rimasta lì, dove la morte l’ha colta. È rimasta a metà di gesti, parole, legami. Non si è riappacificata col fidanzato, non ha sentito la voce del papà, non ha capito chi le veniva addosso.

Impossibile dettare la sintassi alla vita

I Greci nel loro grande realismo tragico immaginavano la parca Atropo, ineluttabile nel recidere il filo del destino degli esseri umani. Che sia per un evento imponderabile o per il gesto colpevole di un altro essere umano, può benissimo essere per noi quello che è stato per Miriam, cioè che la morte mandi all’aria l’illusione di dettare la nostra sintassi alla vita e c’interrompa prima di aver detto l’ultima parola, prima di aver finito di sistemare le faccende, prima di arrivare all’abbraccio che scioglie l’amarezza di un litigio.

Noi non siamo quasi mai spiegati, tesi e chiari come un lenzuolo stirato. Fa male riconoscere che siamo strappati o rattoppati, e in ogni caso sempre stropicciati. Ci proviamo a credere che la vita sia fatta di paragrafi sensati di cui decidiamo la punteggiatura. Ma che ne è della paternità se l’ultimo gesto terreno verso un figlio è una mancanza? Crolla, non sussiste più? Che ne è di un rapporto se l’ultima frase detta a chi amo è un insulto? Che ne è del bene che voglio a qualcuno se la mia storia s’interrompe prima che gli abbia detto “scusa”? Che ne è di me, qui e ora, in mezzo a incomprensioni e stanze in disordine?

L’avvento di un Verbo in mezzo ai litigi

Miriam Ciobanu è morta dopo aver festeggiato Halloween, e anche il ragazzo che l’ha uccisa tornava a casa da una festa identica. Eppure questa tragedia ci parla già di Avvento, se diamo credito a quello che le insegnanti di italiano ripetono sempre: affinché una frase esista e sussista deve esserci un predicato verbale.

Che venga un Verbo a stare in mezzo ai litigi e discorsi non finiti, che stia qui con noi a metà di tutto quel che c’è da fare. Abbiamo bisogno di sussistere in ogni istante, anche lontano dalle zone dove ci sentiamo comodi e, momentaneamente, risolti.

 

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