Perché una persecuzione anticristiana in India Manifestazioni di ostilità, alcuni facinorosi arrestati, lo stadio di Delhi semivuoto a causa dei controlli di polizia che hanno causato fatale ritardo ai pellegrini in arrivo. Molti in Occidente sono stati presi alla sprovvista dalle difficoltà del viaggio indiano del Papa. Ma non i fedeli lettori, italiani e stranieri, di Fides, l’agenzia di stampa della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli che pubblica in quattro lingue e che negli ultimi due anni ha disseminato numerose informazioni sulla realtà di persecuzione non ufficiale che affligge i cristiani dell’India, esigua minoranza di 24 milioni di persone (16 milioni di cattolici) in un paese che ne conta quasi 1 miliardo.
Più violenze in due anni che in 50 I dati diffusi dal Forum cristiano unito per i diritti umani sono allarmanti: i primi 50 anni successivi all’indipendenza (1947-1996) hanno visto in tutto 38 casi di violenza anticristiana, ma in poco più di due anni fra il 1997 e il 1999 se ne sono verificati più di 150. Gli incidenti consistono in aggressioni a preti e suore, assalti a edifici religiosi e a proprietà di cittadini cristiani, roghi di Bibbie ed episodi particolarmente gravi come l’assassinio del protestante australiano Graham Staines e lo stupro ai danni di quattro suore indiane; ad essi va aggiunto un atto ufficiale come la recente, immotivata espulsione del teologo americano Anthony Ceresko. Da cosa nasce questa improvvisa impennata? I cristiani indiani non hanno dubbi: gli incidenti sono aumentati in misura esponenziale dopo l’ascesa al potere del Bharatiya Janata Party (Bjp, il partito nazionalista indù che ha cacciato all’opposizione il Partito del Congresso, quasi ininterrottamente al potere dall’indipendenza) perché i gruppi estremisti indù si sentono protetti, o almeno “compresi”, dal nuovo esecutivo.
In azione gli assassini di Gandhi Effettivamente le campagne anticristiane hanno conosciuto una fioritura senza precedenti da quando il partito di Atal Behari Vajpayee è al potere. La campagna di 15 giorni indetta alla vigilia del viaggio del Papa dal Consiglio mondiale indù (Vhp) per chiedere “la fine delle conversioni forzate ai danni degli indù” ed esigere da Giovanni Paolo II “scuse ufficiali” non è affatto un episodio isolato. Era stata infatti preceduta da una campagna contro il “proselitismo diabolico” dei missionari cristiani “celato sotto forma di servizio sociale” svoltasi fra il 21 febbraio e il 7 marzo scorsi, realizzata da 15 mila militanti della Rashtriya Swayamsewak Sangh (Associazione dei volontari per la nazione – ndt), l’organizzazione a cui appartenevano gli assassini del Mahatma Gandhi. In passato si erano sempre occupati soltanto dei musulmani (Gandhi fu ucciso per averli favoriti permettendo la creazione del Pakistan), ma dalla metà del 1998 si “dedicano” anche alla minoranza cristiana. Un altro gruppo estremista fiancheggiatore del Bjp, il Bajrang Dal, ha lanciato nel settembre del ’98 la campagna “Quit India” (“lasciate l’India” – ndt), che ricalca il nome dell’iniziativa politica con cui nel 1942 il Partito del Congresso di Gandhi avviò la campagna per l’indipendenza dell’India dagli inglesi. Stavolta ad andarsene non dovrebbero essere gli inglesi, ma i missionari cristiani (che in realtà sono poche centinaia in tutto il paese, calcolando anche le confessioni protestanti pentecostali). La campagna è appoggiata dal Consiglio mondiale indù perché “i cristiani stanno mettendo in pericolo l’unità, l’integrità della nazione e le radici culturali della società indù”.
L’attività dei missionari, dice il presidente del Vhp Ashok Singhal, è “una malattia, se la si lascia sviluppare può diventare pericolosa. L’unico progetto dei missionari cristiani è quello di aumentare il numero dei loro adepti. Se Israele, Pakistan e Cina non autorizzano le conversioni, perché dovremmo farlo noi?” dice Singhal, che chiede l’adozione di misure legislative per interdire in modo definitivo le conversioni.
La colpa dei cristiani:
disturbare l’ingiustizia sociale indù
I cristiani replicano per le rime. Fermo restando che a nessuno deve essere negata la libertà di cambiare religione (come ribadito dal Papa nel suo incontro con le autorità religiose indiane), nessun cristiano, dicono, si occupa dei più poveri a scopo di proselitismo. Il fatto è che, come spiega l’arcivescovo di Nuova Delhi mons. Alan De Lastic, “il Vangelo sta spazzando via la struttura delle caste e le secolari discriminazioni”, e questo fa paura agli indù, perché implica “il riscatto dei poveri”. L’induismo, che crede nella reincarnazione, predica la divisione della società in caste in base ai meriti e alle colpe delle vite precedenti; perciò la casta più bassa, quella dei dalit, è totalmente priva di diritti. Tale visione riguarda anche le malattie: esse rappresentano una retribuzione per colpe commesse prima di nascere, dunque un giusto castigo. L’Amore universale cristiano, che non conosce differenze di casta e anzi si concentra sui più poveri e malati, rappresenta una minaccia non solo per la visione del mondo induista, ma soprattutto per l’ordine sociale reazionario che da essa deriva. Per esempio: pur essendo solo il 2% della popolazione, i cristiani si occupano del 10% di tutti i malati di lebbra del paese. Mons. De Lastic è tagliente: “Le conversioni sarebbero di meno se gli indù si occupassero di più dei gruppi emarginati”.
Musulmani e gesuiti alleati contro la dea Kalì
La persecuzione induista contro le minoranze religiose ha prodotto fenomeni di solidarietà fra gruppi diversi. Nel febbraio scorso a Nuova Delhi il centro gesuita per il dialogo interreligioso “Ar-monia” e la locale università islamica “Jamia Millia Islamia” hanno organizzato una manifestazione comune contro il fondamentalismo indù che ha raccolto 5 mila persone. Nel corso della stessa è stata denunciata “la distruzione della fiducia nel carattere secolare dello Stato nutrito da dalit, tribali, donne e minoranze cristiane e musulmane”. Insomma, le minacce della dea Kalì riuniscono, almeno per una volta, i figli di Abramo.